«L’europeo che, dopo un viaggio africano – non, o non solo la policroma e affollata Africa mediterranea, ma le terre più aspre e solitarie dell’Africa oltre il Sahara –, ritorni ad osservare e meditare le immagini della sua terra di origine, si accorgerà di interpretarle in modo profondamente mutato». Nella frase incipitaria del Viaggio in Africa (a cura di Viola Papetti, pp. 71, Adelphi «Biblioteca minima», € 7,00), un testo piccolo quanto prezioso, Giorgio Manganelli propone subito una prospettiva rovesciata rispetto alle attese più comuni. Come si verificherà spesso anche in seguito, nei suoi numerosi reportage, la scrittura prende le mosse dal punto del ritorno, una costante significativa, che lo scrittore inaugura ufficialmente con questo testo approntato nel 1970.
Numerosi saranno i viaggi compiuti in seguito dall’autore, e i loro resoconti costituiscono un prezioso corpus di reportage editi per lo più postumi (India, Cina, Europa del Nord, Italia …); ma questo nel continente nero restituisce un passaggio cruciale: aprire questo testo significa veder balzare fuori quasi a ogni riga immagini e motivi in cui il lettore di Manganelli riconoscerà un condensato compatto di tutto quello che nel corso dei decenni successivi lo scrittore si troverà a ripercorrere ed esplorare.
Il viaggio era stato commissionato da Bonifica S.p.A., una multinazionale che aveva pianificato la realizzazione della Transafricanal, strada che avrebbe dovuto correre dal Cairo a Dar es Salaam, in Tanzania. Bonifica aveva commissionato allo scrittore e ad altri un viaggio di due mesi. Nella postfazione, ricca di informazioni puntuali, la curatrice riferisce che lei stessa aveva messo in comunicazione l’ingegnere responsabile della Società con Manganelli, il quale dunque doveva essere il «cantore» dell’impresa. Evento di non poco conto, questo viaggio, se si considera che l’esperienza africana lasciò un’impronta indelebile sul pensiero e sulla scrittura di Manganelli, ma anche sulla sua stessa vita. In quell’occasione, infatti, conobbe l’ingegner Gianni Filippi. I due restarono amici per tutta la vita e fu proprio in virtù di quell’amicizia che Manganelli si indusse ad acquistare una casa (di quelle romane era sempre stato affittuario) nel paese della Tuscia dove Filippi viveva: Vallerano. Ed è abbastanza singolare che in quello stesso paese avessero in passato scelto di stabilire la propria residenza altri due scrittori, peraltro molto diversi da Manganelli: Corrado Alvaro e Libero Bigiaretti, ai quali è intitolato un premio letterario che a Vallerano da alcuni anni viene attribuito a opere di narrativa.
L’Africa è per Manganelli un continente essenzialmente immune da tutto ciò che segna l’identità dell’europeo. L’europeo ammira la velocità, l’africano la lentezza, l’uno costruisce monumenti, l’altro ha gli animali e le piante millenarie che si impongono sul paesaggio: l’«assoluta arcaica vita africana, di vegetazione e animali», e sono gli animali «gli abitanti assoluti e fatali dell’Africa». Il bianco ha il tempo che scorre verso il futuro, il nero ha il presente assoluto. Alla città, il simbolo più significativo della civiltà moderna, si contrappone il villaggio, immerso in un enorme spazio non misurabile, non controllabile e senza confini.
Veicolato da una prosa sontuosa, il discorso è un tessuto di considerazioni di natura politico-economica. Si può rivolgere – si chiede Manganelli – l’invito a passare la Pasqua a Roma o Madrid agli abitanti di paesi che hanno un reddito medio annuo di 70 dollari? Ma è innegabile che il «ventesimo secolo» sia arrivato anche in Africa, e «non senza brutalità e asprezza». A proposito di Nairobi scrive: «nelle strade centrali trionfa lo Stato … Ma, fuori da quegli angoli retti, le parole dei dizionari europei, lo Stato, la città, la capitale, entrano in deliquescenza e la virulenta lebbra della miseria avvolge tutto senza grazia e senza innocenza». Di questa «lebbra» immedicabile si ricorderà fino a Tutti gli errori (1986).
Non stupisce che lo scritto proposto non abbia incontrato il favore della committenza. Lo scrittore si trovò perciò costretto a intervenire radicalmente sulle proprie pagine, e di fatto a riscriverle. Viaggio in Africa rappresenta l’edizione di quel primo testo.
Riletto oggi c’è da osservare che Viaggio in Africa non è solamente troppo ‘letterario’. Il testo non racconta di un’Africa che ha bisogno di una imponente linea stradale, ma di un’Africa epifanica, una gigantesca creatura dalle ossa calcificate, ancora profondamente radicata in un passato remoto assoluto, scalfito, solo scalfito, dal colonialismo. A un continente per molti versi ancora immune dalla consapevolezza del ‘tempo’ e dello ‘spazio’ organizzati secondo i criteri europei (controllo, efficienza, profitto) vengono di fatto imposte le coordinate occidentali e rivelate la propria indigenza e la propria arretratezza, ma anche prospettati di colpo un’infinità di bisogni e desideri rispetto ai quali l’africano era stato fino ad allora del tutto alieno.
Con il termine ‘assoluto’, uno dei più ricorrenti e significativi di questo testo, Manganelli elabora la consapevolezza di essere uscito, con quel viaggio, fuori dai confini della civiltà così come è generalmente intesa in Occidente, e di essere stato scaraventato non solo in un altro continente ma anche in un altro modo di essere al mondo. E quando qualche anno dopo scriverà di sentirsi profondamente «preistorico», i lettori sapranno con migliore esattezza di cosa stesse parlando.
Quella che doveva essere un’innocua relazione di viaggio in vista di un’impresa stradale, diventò «l’emozionata confessione di un sentimento profondo di colpa e di un pari senso di meraviglia», scrive Viola Papetti. Manganelli aveva trafitto il progetto neocolonialistico di Bonifica e ne aveva smascherato con lo sguardo rigoroso dell’antropologo la silenziosa violenza. Se per un verso l’autore deve raccontare l’Africa ‘ferita’ dal colonialismo, per un altro verso emerge la consapevolezza che il continente ha ormai necessità di aprirsi al resto del mondo e all’Europa e di incamminarsi verso un nuovo destino.
Di ritorno dal viaggio Manganelli si fermò a Capo Sunio e guardò senza la minima simpatia i resti della civiltà greca. Lo scrittore non aveva semplicemente viaggiato in Africa, ma era penetrato con tutto se stesso in una terra ancora fresca di Eden, ma ridotta a un gigantesco corpo calcinato. Dopo quella Africa tornare impunemente a essere europei diventa semplicemente impossibile.