Il referendum inglese è stato una risposta alla paralisi politica, un sussulto dei cittadini per riprendere in mano il proprio destino. Tutti sanno che, tanto negli Usa quanto nell’Ue, i regimi sono paralizzati e incapaci di decidere: giovedì la Corte Suprema degli Stati uniti bocciava il piano dell’amministrazione Obama per facilitare l’integrazione di milioni di immigrati, una decisione a parità di voti, 4 favorevoli e 4 contrari, perché mancava il voto del nono giudice, che Obama ha nominato ma che la maggioranza repubblicana in Senato rifiuta di confermare.

Neppure la strage di Orlando è riuscita a fare approvare ai repubblicani elementari misure di buon senso come vietare la vendita di armi a chi è mentalmente instabile o sospettato di legami con il terrorismo.

Le cose non vanno meglio da noi: l’Unione Europea non è in grado di decidere sull’accoglienza ai profughi siriani, né di riavviare la crescita economica o di combattere i paradisi fiscali. Non è in grado di garantire equità: le regole sul debito valgono per i più deboli, non certo per i più forti, la solidarietà europea non va al di là dell’Erasmus, mentre il chiacchiericcio sulla nomina di un ministro delle Finanze comune sarebbe risibile se non fosse tragico. Bruxelles è da tempo il braccio armato di un neoliberalismo tanto più feroce quanto incapace di offrire speranza per il futuro.

Giovedì, quindi, hanno vinto le «antiche libertà inglesi» e ha perso la tecnocrazia europea. Gli slogan delle élite sulla catastrofe economica imminente in caso di uscita della Gran Bretagna non hanno convinto gli elettori.

Il referendum è stato una prova che i sistemi politici nazionali possono ancora funzionare nell’epoca della globalizzazione e del dominio dei mercati finanziari, quanto meno se vi trovate a Londra e non ad Atene. Si vedrà nei prossimi mesi se questo tentativo di riappropriazione della sovranità nazionale è davvero possibile.

Il voto è una vittoria anche per gli xenofobi Nigel Farage e Boris Johnson ma qui si capirà se Jeremy Corbyn e i nuovi laburisti saranno all’altezza della situazione, se sapranno riaprire il dialogo con i «perdenti», con i lavoratori che hanno votato per l’uscita dalla Ue nell’illusione che questo possa migliorare la loro situazione.

L’uscita della Gran Bretagna può anche essere l’ultima speranza per resuscitare un progetto europeo alla cui crisi Londra ha contribuito in maniera determinante fin dall’epoca di Margaret Thatcher. Fu lei a imporre un’Europa «alla carta», cioè una zona di libero scambio in cui la Gran Bretagna conservasse il diritto di rifiutare ogni regola contraria ai suoi interessi, dalle protezioni sociali al trattato di Schengen sulla libera circolazione delle persone.

Non solo: la Thatcher inventò il celebre slogan «I want my money back!», ottenendo il rimborso di gran parte del contributo al bilancio comunitario.

Oggi, infatti, la Gran Bretagna paga poco più della metà di paesi con una popolazione e un Pil comparabile come Francia e Italia.

E, infine, Londra ha sempre sostenuto il rapido allargamento a Est, con il prevedibile risultato di rendere ingestibili i meccanismi di governo dell’Europa a 28 paesi.

Questa Europa, infettata dal virus del neoliberalismo, non poteva in prospettiva che suscitare reazioni xenofobe e sogni di rivincita nazionale alimentati dall’abbandono dei lavoratori al loro destino: è stupefacente la cecità e l’opportunismo delle élite trasnazionali di fronte ai governi clerico-fascisti in Ungheria e Polonia, a un candidato di estrema destra che ha mancato per un soffio la conquista della presidenza in Austria e al fatto che il primo partito francese è oggi il Front National.

L’Europa di oggi non ha nulla a che fare con quella sognata da Altiero Spinelli e, con ogni evidenza, è destinata alla catastrofe, certamente nella forma di una serie di richieste di deroghe alle regole comuni, in alcuni casi di vera e propria uscita, per quanto alto sia il prezzo da pagare, in particolare per i membri della zona euro.

Ora che «l’impensabile» è avvenuto e la Gran Bretagna se ne va, occorre guardare lucidamente in fondo all’abisso spalancato di fronte a noi prima che sia troppo tardi.