Una vecchia fabbrica di Detroit fa da sfondo alla Medea di Seneca messa in scena da Pierpaolo Sepe che, dopo il debutto al Piccolo di Milano, sarà al Teatro Nuovo di Napoli (fino all’1 dicembre. Protagonista Maria Paiato, che racconta: «Si tratta del terzo lavoro sulle figure femminili cominciato con Erodiade di Giovanni Testori, e proseguito con Anna Cappelli di Annibale Ruccello. Insieme a Pierpaolo ho compiuto un percorso; abbiamo lavorato su tre personaggi che per risolvere la loro situazione personale approdano a un territorio estremo. Tre assassine, che compiono tre gesti efferati, ma non tre mostri. Si tratta di sentimenti, di atti connaturati all’essere umano. Non sono tre individui isolati ma lo specchio della società. Forse Anna Cappelli è quella più in linea con il presente: è il prodotto di un contesto culturale dove tutto quello che conta è possedere e lei se ne lascia ossessionare fino a mangiare l’amante».
La scelta del testo di Seneca permette di cancellare la pietà, la commozione e persino la partecipazione emotiva del coro al dramma di Medea. L’ira sfrenata, il desiderio di vendetta per placare un dolore ingiusto le chiavi di accesso alla cronaca attuale: «Proprio per com’è scritta – prosegue Maria Paiato – la violenza, la ferocia delle parole denunciano un conflitto che si risolve solo in altra distruzione. Medea approda in una terra che la rigetta, come accade oggi ai barconi di migranti che arrivano in terre dove non vogliono saperne di loro. C’è un mondo, il nostro, che non riconosce l’altro mondo».
La principessa barbara mette il suo sapere a disposizione degli Argonauti, la missione riesce grazie alle sue arti ma, approdati in patria, è un peso da cancellare. Da Euripide a Seneca, la furia di Medea è diventata più violenta. Una furia che continua a manifestarsi nel mondo. La traduttrice Francesca Manieri ha inserito nel testo alcune poesie dei reclusi della prigione americana di Guantanamo, catturati dopo l’attentato dell11 settembre 2001. Diego Sepe (che impersona il coro) le recita al pubblico. Max Malatesta nei panni di Giasone, Orlando Cinque-Creonte e la nutrice Giulia Galiani mettono in scena, accanto a Medea, lo scontro di civiltà: «L’ira di Medea – scrive Sepe – condanna il mondo al caos. Un mondo che non risponde né corrisponde all’individuo. Una frattura incolmabile si produce tra il reale e il desiderio e più questo baratro si amplifica più l’ira divampa. Nel volto dell’altro viene iscritto il male, la colpa, stigmatizzata, in un orribile gioco di proiezioni, la reazione alla nostra violenza. Il volto dell’altro smette di raccontare quell’abisso che è la precarietà umana, di raccontare quella pulsione etica al non uccidere».
E allora c’è bisogno di una rappresentazione che metta il pubblico di fronte alla distruzione che le immagini rassicuranti della cronaca quotidiana cercano di cancellare: «La versione latina è più forte perché le espressioni sono più dure. Il pubblico inoltre non è più abituato a quel tipo di costruzioni, a una certa modalità statica del linguaggio. Questo doppio binario, tra il classico e il contemporaneo, crea un corto circuito che tiene alta l’attenzione».
Con la sua radicalità Medea costituisce anche un approdo finale: «È il mio quarto Seneca e credo, con questo, di aver concluso la mia esplorazione dell’autore. Metterlo in scena è molto faticoso, bisogna in qualche modo essere degli atleti. Anche con le figure femminili estreme credo di potermi fermare qui. La vita di un attore è talmente intrecciata con l’attività sul palco che quello che recitiamo spesso ci modifica, ci trasforma. Credo di aver bisogno di cambiare registro per un po’».