Tricarico, con i suoi 4.900 residenti – la metà di quanti ne aveva nel 1951 – è un piccolo paese della Lucania, steso su un colle ove svetta la torre arabo-normanna, ben conservata, accanto al cinquecentesco monastero, restaurato solo in parte. Lì, le stampe originali delle foto che Henri Cartier-Bresson fece nel suo viaggio lucano del 1951 – accompagnato da Rocco Mazzarone, medico e mentore del sindaco poeta – ingialliscono sui pannelli di una mostra rimasta chiusa nei lunghi corridoi dell’ex convento.

Il grande fotografo era venuto attratto anche lui da quel meridione che in quegli anni richiamò l’attenzione di studiosi come Frederich Friedmann, John Davis, Donald Pitkin, George Peck, Ann Cornelisend, Edward Banfield, tutti indagatori della realtà contadina portati là da Carlo Levi, il torinese che aveva lasciato il cuore ad Aliano, dov’era stato confinato, e da Manlio Rossi Doria.

E arrivò anche Ernesto De Martino, che avrebbe fatto di quella la sua terra «adottiva», come arrivarono Fosco Maraini e Arturo Zavattini.

Friedmann, un antropologo tedesco che aveva letto Fontamara di Silone e il Cristo di Levi e che Mazzarone portò in giro per Tricarico e le terre intorno, qui riconobbe quella che chiamò «la filosofia della miseria». George Peck, storico-antropologo formatosi a Yale, sarà autore della prima indagine di comunità in Italia proprio a Tricarico, anche se, si dice, verrà poi colpito dalle isterie maccartiste ed esonerato dalla sua Università, abbandonando gli studi. Ann Cornelisend, che venne dopo aver letto L’uva puttanella di Scotellaro, scriverà i suoi romanzi-inchiesta su Torregreca, «un paese del Sud Italia» come ce ne sono tanti, pensando a Tricarico, mentre Edward Banfield nel 1955 scriverà Le basi morali di una società arretrata, uno studio su Chiaromonte che diverrà famoso soprattutto per il «familismo amorale».

Matera, non lontana, in quegli anni divenne tristemente famosa per essere stata descritta da Togliatti come una «vergogna nazionale». Arrivò anche Adriano Olivetti, con il suo progetto di Comunità, per dare vita al satellite urbanistico della Martella.

Come non è lontano Aliano, che con i suoi 889 residenti (ne aveva tre volte tanti nel 1951) oggi «vive» di Carlo Levi, conservando dipinti e foto in un museo, la casa del confino, e le sue spoglie nel cimitero in cima al paese ove fu sepolto, d’un lato, lui «non cristiano», circondato dai calanchi secchi, come appaiono nel recente Lucus a lucendo, il film-documentario di Alessandra Lancillotti ed Enrico Masi.

A Tricarico, invece, il ricordo di Rocco, suo figlio vero, pare più nascosto. Un dipinto murale all’entrata del paese lo raffigura, ma poi ne scompare ogni traccia. l quartieri Saraceno e della Rabata, pur abitati, e le sue strade, testimoniano di un passato che più non c’è e dell’assenza di Rocco. Il centro di documentazione a lui dedicato è stato chiuso. «Io sono uno degli altri» che, come lui, sono stati cancellati.

Il paesaggio d’intorno, tra arse distese e colli boscosi, pare quello d’una moderna terra agricola. È la Basilicata dei campi arati, ma solo in parte, degli uliveti sparsi, dei capannoni e dei viadotti, delle magre zone industriali. Ma il paesaggio ha memoria.

Le poche case coloniche e contadine sparse testimoniano del lascito del latifondo, che non concedeva se non le terre marginali ai bifolchi, i quali vivevano assembrati nei borghi, dediti alla pastorizia quanto all’agricoltura nei campi dei signori, da tempi immemori.

La conformazione degli insediamenti ricalca la struttura feudale del possesso, con cittadelle fortificate erette a costellare il territorio inabitato, di cui erano presidio. Che resterà inalterato fino al Novecento, finché i contadini non andranno a occupare le terre e la «riforma» agraria non distribuirà che fazzoletti agli agricoltori pieni di speranza. E che verrà definitivamente modificato da dighe e bonifiche, a portare l’acqua preziosa sulle aride zolle, e dalla industrializzazione rimasta cosa estranea, come se mai avesse attecchito.

Il paesaggio è memoria, anche quando questa pare persa. Forse perché, come ebbe a dire Lucio Gambi, «il paesaggio è soprattutto ciò che non si vede».

Le rovine restituiscono la coscienza della storia (Marc Augé), qui rimasta nei recuperati resti greco-romani, nelle solide costruzioni arabo-normanne e aragonesi. Ma non di quella «civiltà contadina» che è stata spazzata via dall’emigrazione – per l’industrializzazione del Nord – e dai «programmi di modernizzazione», dai pozzi e dagli oleodotti dell’industria petrolchimica.

Sono le macerie del nostro tempo vuoto che risaltano, nell’eterno presente in cui viviamo, a testimoniare il passato. Il vuoto delle case non finite coi mattoni a vista, di costruzioni e capannoni abbandonati, di cantieri incompiuti, di ferrame e tubature, di plastiche e canne ai bordi di strade sconnesse invase dalla gramigna, che si crepano a ogni pioggia. Un vuoto che è segnato, come su una parete alla quale è stato appeso a lungo un quadro, indicando un’assenza. Come quella di Giuseppe Novello, contadino di Montescaglioso ucciso a 32 anni nel 1949, sul cui corpo riverso giacque la giovane moglie Vincenza Castria. Ti rubarono a noi come una spiga, scriverà Rocco «per un giovane amico assassinato» e per tutte le vittime delle occupazioni delle terre.

Oggi la storia remota, ma innocua, va ad alimentare il turismo, mentre quella recente – i contadini, l’occupazione delle terre – è cancellata e la «natura» è messa a disposizione per essere «goduta» poiché incontaminata. In questo paesaggio imbrattato dal neo-capitalismo, de-naturalizzato dal consumismo, resta la poesia di Rocco inconsumabile, che non si deteriora, la cui resistenza non è stata annullata. La materialità della violenza sul corpo vivo dei brulli colli della Lucania non ha scalfito l’immaterialità delle parole.

Eppure, questa terra è ancora lo zirlìo dei grilli che si ode camminando lungo la «rotabile» o lo scampanio di pecore e capre che pascolano tra campi recintati ai margini delle case riverniciate a richiamare i tanti che se ne sono andati. Oggi, solo dal recupero può tornare la vita, ora che una civiltà si è persa per sempre, crescendo sulla tabula rasa lasciata dallo «sviluppo» e ridando linfa a queste «aree interne» di nuovo dimenticate dalla politica, con una nuova gioventù. Come quella che, sola, visse Rocco, prima di lasciarci troppo presto. Un poeta nazionale da celebrare accanto ai grandi, lui che pur piccolo ne fu all’altezza.