Per quanto non si faccia che parlare di ripresa cominciata o dietro l’angolo, l’economia europea non gode affatto di buona salute. Non si tratta solo dei paesi con maggiori debiti e minore crescita tra i quali si colloca l’Italia, ma dell’insieme dei paesi Ue: in essi, nell’ultimo trimestre, il Pil è aumentato dello 0,3% rispetto al trimestre precedente ed appena dell’1,1% rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente.

Dovremmo meravigliarci? E perché visto che il Pil dei paesi sviluppati è cresciuto al ritmo del 4% negli anni sessanta, del 3% negli anni settanta, del 2% negli anni ottanta, ancora del 2% negli anni  novanta e dell’1% negli anni duemila?

Non sarebbe più giusto, invece, prendere atto che siamo entrati in quello “stato stazionario” che due secoli fa era stato preannunciato da J.S.Mill?

E’ vero, Usa e Giappone hanno ripreso a crescere ed invece del nostro striminzito +1,1% registrano un +2,7%. Ma il problema sembra essere proprio qui: l’insieme delle economie sviluppate mediamente si sta stabilizzando su una crescita dell’1%, ma questa è una media tra paesi diversi, che sono in competizione tra loro e che hanno fatto e fanno politiche diverse.

Usa e Giappone sono quelli che hanno fatto politiche di liquidità emettendo moneta e praticando le vecchie e buone ricette della svalutazione competitiva. Loro possono e lo fanno, noi forse cominciamo a capirlo, ma non siamo in grado di farlo. E loro finiscono per farlo a spese nostre.

Le elezioni europee sono ormai alle porte e sarebbe il caso di portare il confronto proprio su questo tema: è possibile fare una politica economica europea dotandoci degli strumenti necessari a praticarla?

Partiamo da una constatazione. Oggi l’Europa è imbrigliata in una duplice trappola: è penalizzata all’esterno da un valore dell’euro troppo alto, ed all’interno da una sostanziale deflazione.

Vediamo separatamente i due problemi.

Ad inizio secolo euro e dollaro sostanzialmente si equivalevano, ma oggi l’euro vale 1,4 volte il dollaro. Lo svantaggio competitivo che deriva da questa rivalutazione è enorme e non vale solo verso i prodotti degli Stati uniti, ma anche verso quelli di tutti i paesi emergenti le cui valute sono indicizzate al dollaro. Naturalmente esso non colpisce ugualmente tutti i paesi europei, né tutti i settori produttivi. Ad esempio la Germania ne è stata colpita molto meno perché è più specializzata in macchinari industriali e veicoli di alta gamma e perché ha creato una rete allargata con i paesi vicini del centro Europa a più basso costo del lavoro nelle produzioni di bassa e media gamma.

Questo mix ha dato forza all’export ed in questo caso il valore basso del dollaro ha consentito di contenere i costi delle materie prime importate ed in primo luogo di gas e petrolio pagati, appunto, in dollari. È anche così che si spiegano i diversi tassi di crescita interni all’Europa ed il declino di alcuni paesi tra i quali l’Italia.

A questa situazione sfavorevole si affianca, oggi, lo scenario deflattivo che stiamo vivendo: in Europa l’ultimo dato di inflazione si attesta sotto l’1% e, con Pil stazionario e prezzi fermi, la nostra situazione somiglia sempre di più alla lunghissima stagnazione vissuta dal Giappone.

Apparentemente e nel breve periodo, la bassa inflazione può favorire il potere d’acquisto dei salari, ma essa ha implicazioni strutturali più gravi: in primo luogo perché depotenzia e vanifica quel poco di politica monetaria che la Bce prova a fare con i tassi bassi; in secondo luogo perché rende più difficile il riequilibrio dei conti per i paesi fortemente indebitati.

Così i due fenomeni, svalutazione dell’euro e deflazione, finiscono per produrre un effetto moltiplicativo negativo sull’economia europea: la scarsa liquidità rispetto al dollaro fa salire il valore dell’euro, diventano meno competitive le esportazioni, rallentano la produzione, i redditi, i consumi…

Può, in questo scenario, l’Europa restare senza una sua politica economica e senza gli strumenti di intervento di cui deve essere dotato ogni paese e di cui hanno fatto uso abbondante i pochi grandi paesi che hanno meglio affrontato la crisi? E può accadere tutto questo in un’Europa che annaspa a metà del guado tra unione monetaria ed unione politica?

Insomma non c’è dubbio: serve un’Altra Europa, un’Europa politica, uno Stato federale unificato con un governo centrale, una sua Banca, una sua Difesa, un suo Bilancio unificato, una sua Politica Industriale.. Su questo terreno dovrebbe svolgersi il confronto elettorale e su questi obiettivi dovrebbero pronunciarsi le forze diversamente europeiste che si collocano tra sinistre e socialdemocrazie.

Ma dovrebbero farlo, per quanto dirò subito, al più presto perché mentre noi ci attardiamo a ragionare sull’Europa che vorremmo, i grandi poteri, stanno già preparando il terreno non per un’altra Europa, ma per andare oltre l’Europa.

Come documentava con ricchezza di riferimenti sul manifesto di domenica Thomas Fazi, sono diversi ed avanzati i contatti e gli studi attorno alla proposta di istituire una mega-area di libero scambio e di investimenti che comprenda Stati Uniti ed Europa. Essa parte su input degli Usa, ma ha il sostegno esplicito del leader inglese che ha addirittura prospettato l’uscita dall’Europa per creare un’area tra le due rive dell’atlantico che farebbe perno proprio sulla Gran Bretagna (che, non a caso, sta in Europa, ma non nell’euro).

Riprendendo quanto detto prima sul rapporto tra le monete e sul vantaggio competitivo del dollaro è chiaro che eliminando i dazi sulle merci provenienti dagli Usa si aprirebbe un’autostrada per la penetrazione in Europa dei prodotti Usa a basso costo (pensiamo anche ai prodotti Ogm ed alla nostra agricoltura) con conseguenti danni anche per le esportazioni interne ai paesi europei.

E’ anche questo un tema che dovrebbe entrare nella campagna elettorale per le europee e sul quale sarebbe interessante capire meglio quali forze e quali interessi si stanno muovendo e cosa ne pensano non solo la lista Tsipras, ma anche i socialdemocratici europei ed il Pd.

Con la speranza che ancora una volta non ci si lasci affascinare dall’ultraliberismo e dalle promesse di crescita aggiuntiva che ne discenderebbero dimenticando che, se oltre occorrerà guardare, ci sono rive più vicine di quelle di oltre atlantico.