Dalla «vita frale» dantesca alla «povera foglia frale» di leoperdiana memoria, il senso della fragilità, sia pure nella sua forma contratta, viene a depositarsi in molti modi nella rappresentazione e storia delle idee. Con la stessa radice di «frangere», che tuttavia situa il proprio significato in un agire attivo, Sulla fragilità (edito da Le Farfalle, pp. 30, euro 10) scritto da Niccolò Nisovoccia è un piccolo compendio in prosa poetica sui sensi di una comunanza non solo umana. Qualsiasi cosa arrivi al mondo, dai viventi alle stesse idee, sono infatti deperibili e assumono la traiettoria di una mortalità che prescrive l’arco di inizio e fine. Ciò di cui discetta Nisivoccia dunque è tanto comprensibile quanto raro, in tempi narcisisti come quelli presenti il cui dettato, dalle relazioni ai nostri corpi al senso della politica, è soggetto al puro rimpasto agonistico di una performance invulnerabile.

Dire la fragilità non significa chiamare in causa la condizione precaria; c’è infatti nel fragile una delicatezza che ne illanguidisce il peso, lo rende a una commozione che va attraversata dapprima dagli occhi per poi essere pronunciata quando non sperimentata. Si deve tuttavia fare attenzione, lo racconta bene Nisivoccia quando parla della bellezza, della vertigine, della realtà fatta a pezzi, della preghiera, del proprio nome nella «lotta per farlo assomigliare a sé stessi»; esperienze che, cambiando il contesto materiale, possono essere assai diverse.
Non è un caso che il librino sia inventario di varie e minute fattispecie: anche nel «frammento» circola la radice della fragilità. È una suggestione che Nisivoccia stende e interroga ripetendo a ogni frase la parola, quella che dà il titolo al libro, pungolo ossessivo che guarisce nella ridondanza. E nella gentilezza, altra postura che viene scelta come misura; alla sproporzione dunque, all’altisonanza del contemporaneo che spaccia simulacri e altro genere di deiezione, l’autore sostituisce la coscienza della imperfezione di sé, del mutamento del circostante, lo scacco dei legami.

È una poetica sentimentale che tuttavia non è inutilmente intimistica bensì affonda nella piega di un vissuto che maneggia con cura le incrinature: quando sono riferite a noi stessi cantano una debolezza che mostra il suo lato imponderabile; siamo suscettibili a questa lieve crepa, la avvertiamo e gestirla è faticoso quando si trova al fondo, scavando. È lì, la rottura, una frangibilità nella esposizione al mondo e a chi – o cosa – ci procura nocumento, dolore. Ma è lì anche un altro tipo di rottura che risuona di trasformazione. Resta acquattata in attesa di tempi migliori, non vuole rivincite, ha una forza che si avvantaggia proprio del sapere della propria fragilità. Disponibile a dire che sì, oltre la comune dotazione terrestre, ci si deve stringere insieme. Per dire che ci si sbaglia, eccome, che vi è una facilità nella caduta e talvolta vi è poca resistenza agli urti. Eppure c’è un altro modo, per raccontarsi meno soli.