Volevo Nascondermi di Giorgio Diritti presentato oggi in concorso a Berlino 70 racconta la vita del pittore e scultore Antonio Ligabue. Nel genere del film biografico, quello sulla vita di un artista rappresenta un sottogruppo definito e una sfida piena di trappole. Bisogna ovviamente far vedere le opere. Ma come inquadrarle ? Non si può semplicemente filmare dei quadri, a meno di avere il rigore e il coraggio di Jean Marie Straub e Danièle Huillet in Une Visite au Louvre. Allora la tentazione è quella di metterli in scena, imitandone i colori o la composizione o perfino il formato. C’è poi il problema di filmare il lavoro del pittore. Tutti questi aspetti ed altri ancora si pongono al regista che affronta il biopic dell’artista. Nel caso di Ligabue, la cui vita non fu meno travagliata di quella di Van Gogh (del quale conosceva e ammirava la pittura), c’è tutto questo e un problema in più. Ligabue è abbandonato dai genitori naturali e cresciuto in una famiglia svizzera che, pur accogliendolo, gli offre un’esistenza dura. Incapace di adattarsi alle regole sociali, è presto descolarizzato.

GLI VENGONO diagnosticate delle turbe mentali. Da giovane conduce un’esistenza errabonda e asociale, lavorando occasionalmente come bracciante. Il tema della malattia mentale e del rapporto di questa con la creazione artistica s’invita in film di per sé non facile. Anche Van Gogh era affetto da problemi mentali, ma non era un semplice di spirito. Con Ligabue la tentazione poteva essere quella di sostituire alla sua arte un discorso.

Diritti sbroglia in parte la matassa evitando di discettare sull’arte naif. Solo in una sequenza, in occasione d’un esposizione romana, un critico teorizza sul genio naturale di Ligabue il quale abbandona il gala e fugge via per le vie della capitale; il film se ne va con lui per il lungotevere tra le statue del ponte Sant’Angelo e i senzatetto che dormono ai loro piedi. In questo passaggio, come per il resto del film, Diritti sceglie un linguaggio che non si eleva mai al di sopra del proprio eroe, senza per altro scimmiottarne il candore.
COME nei primi film di questo regista, il suo è un cinema che trova se stesso soprattutto nel piacere di ricostruire o di ritrovare un mondo pre o proto-industriale. Volevo Nascondermi comincia nell’ambulatorio d’uno psichiatra che esamina Ligabue. Un quadro di Mussolini al muro data, senza precisarlo, il momento. Il resto del film conserva quest’imprecisione cronologica, concedendo pochissimi riferimenti all’attualità – un altro modo per restare all’altezza d’occhio del pittore, più interessato alla natura che agli uomini, e eventualmente a questi solo in quanto parte del mondo animale, e per nulla attratto dalla storia. Nella testa dell’artista, mentre il dottore tossisce o gli pone delle domande, s’agitano, non invitati, dei pensieri aggressivi. A chi non è capitato di farsi sorprendere da un ricordo invadente, sgradevole o semplicemente imbarazzante, e di provare a scacciarli emettendo un grido o una frase. La follia è il fatto non riuscire a far tacere queste voci. Nel caso di Ligabue, esse lo rimettono davanti alle violenze subite e alle pene patite, con lui che cerca di esorcizzarle provocandosi delle ferite in testa, «per far uscire gli spiriti malvagi».

IL FILM di Diritti è impuro. Da un lato s’immerge nell’esistenza dell’artista, offrendosi il lusso, nell’errare con lui, di filmare luoghi e paesaggi meravigliosi della valle del Po’. Dall’altro cede alla tentazione di mettere in scena, e quindi di spiegare, la follia dell’artista. Il più grande nemico del film non è però la psicologia. Quanto piuttosto l’esistenza di immagini documentarie di Ligabue, segnatamente quelle girate nel 1962 dal regista Raffaele Andreassi (e in parte visibili su Youtube).

LA STORIA di questi film è ripresa in Volevo Nascondermi, che a quei documentari si inspira constantemente per la sceneggiatura e per l’interpretazione. Elio Germano nei panni dell’artista si presta con generosità in un lavoro di mimesi totale. Ma il confronto è spietato, e la semplice imitazione, per quanto ben fatta, non avvicina ma anzi allontana il film dalla potenza dell’originale.