Fin troppo banale identificare secche linee di compromissione, quindi immediati coni d’ombra, nelle quali i significati originari si svuotano di senso, per poi lasciare spazio ad un sorta di terra di nessuno. Soprattutto se ci si riferisce a quello che oggi, con termine spesso improprio, definiamo come «rossobrunismo», ossia quell’insieme di convincimenti che nel nome della solidarietà collettiva legano i temi dell’emancipazione sociale alle sensibilità più proprie del nazionalismo esasperato, fino a trascendere nella legittimazione dei fenomeni fascisti per come si sono concretamente manifestati nel Ventesimo secolo.

UNA GENEALOGIA, a tale riguardo, rischia di rivelarsi molto incerta se non fallace. Poiché incasella personaggi e pensieri – invece – tra di loro molto diversi. In altre parole, il metterli non solo in successione ma in contiguità, costituirebbe una deliberata manipolazione. Detto questo, rimane tuttavia il fatto che il lavoro di scavo dello storico non consista nel collocare singole figure all’interno di un repertorio di ruoli e funzioni definiti a priori bensì di cogliere, tra le altre, quali siano le zone in cui gli opposti trovino una qualche reciprocità. Non analogia di pensieri e neanche omologie di condotta, quindi, bensì un terreno di significati comuni.
È questa la cornice in cui opera la riflessione di Roberto Della Seta con la sua ricerca su Dal rosso al nero. Cento anni di socialisti e comunisti passati a destra (Franco Angeli, pp. 336, euro 25). L’autore è uno studioso da sempre sospeso tra impegno ambientalista e ricerca storica. Due identità, per capirci, che interagiscono: si comprende l’ambiente in cui si vive se, al netto di molte altre riflessioni, si ragiona anche nel merito delle ideologie correnti, ossia del modo in cui ci si rielabora dinanzi alle circostanze del tempo corrente.

DELLA SETA si risparmia l’ambigua e compiaciuta sovrapposizione tra destra e sinistra, esercizio per gli oziosi così come per i tendenziosi (soprattutto di destra). Invece, riflette sulle intercapedini, sugli anfratti, sulle aree di intersezione tra culture politiche antitetiche. Consapevole che la via originaria di questo itinerario non sia data dall’accomunare opposti radicalismi ma dal comprendere quali siano stati gli ambiti di comune sensibilità. A tale riguardo, vi è un ricorrente asse di riflessione nei radicalismi, che identifica nella «borghesia» il vero soggetto dell’internazionalismo e cosmopolitismo moderni. Mancanza di confini coniugate ad una insaziabile aspirazione predatoria. In altre parole, il vizio di fondo – denunciato da quanti, da originarie sponde di sinistra, si trovarono quindi a ragionare anche in accordo con quelle opposte, della destra radicale – si collocherebbe nella denuncia della natura, al medesimo tempo artificiosa e collusiva, della classe dominante la quale, nel nome di un interesse collettivo, invece soddisfa esclusivamente quello egoisticamente suo proprio. Tuttavia il rinforzo a tale impostazione deriva dall’impianto culturale di fondo che, alla lettura economico-sociale, fa subentrare quella antropologica ed essenzialista, molto diffusa nel primo Novecento. La quale attribuisce ad un solo ceto la responsabilità di una degenerazione altrimenti collettiva, poiché questo avrebbe identificato il pianeta esclusivamente con i suoi soli interessi «materiali», trascinando il resto della società nel suo delirio di onnipotenza.

IN FONDO, la critica del presente avanzata dalle destre radicali ed illiberali si fonda sulla denuncia della mancanza di limite, e di senso del «sacrificio», che accompagnerebbe la modernità. Da ciò, quindi, anche la capacità di trasmutare la lettura dei rapporti sociali di produzione in mero esercizio moralistico, basato sull’identificazione, così come sul rifiuto, di un gruppo di «colpevoli» piuttosto che sulla comprensione critica dei differenziali di forza e potere. Evidenziare una tale mistificazione, attraverso la lettura di tutta una serie di idealizzazioni negative, equivale ad identificare uno dei punti di sutura tra rosso e nero, laddove soprattutto l’una cosa (le classi sociali) confluiscono nell’altra (la «nazione», la «patria» e così via). Il libro di Della Seta, soffermandosi su due laboratori continentali, la Francia e l’Italia, rielabora criticamente la nozione di «rivoluzione», rivelandone sia la sua declinazione palingenetica che, al medesimo tempo, regressiva. Non oppone mai le due cose ma piuttosto ne coglie i punti di intersezione. Pur mantenendo distinte le prospettive. Anche per questo l’autore si impegna piuttosto in un’indagine su quelle «terre di mezzo» dove invece le dense sfumature si perdono, a favore di un tanto equivoco quanto soffuso territorio di connivenza che, storicamente, ha prodotto, tra gli altri, i collaborazionismi con la Germania di Hitler.

DELLE TRE PARTI che compongono il testo risultano maggiormente convincenti le prime due, che non a caso arrivano fino al 1945. Dopo di che l’indagine, maggiormente schiacciata sulla contemporaneità, si sofferma sulla diaspora socialista e sull’attrazione esercitata, per una parte di essa, da Berlusconi con Forza Italia. Si tratta di un tema per molti aspetti ancora irrisolto dalle cronache del presente, benché in parte già oggetto di storicizzazione. Anche qui sussiste un passaggio critico ed è quello che si risolve nella consunzione della distinzione tra repubblicanesimo costituzionalistico e democrazia populista. Da questo punto di vista Roberto Della Seta ci invita a cogliere più le sfumature che non le facili sintesi di un giudizio che, in sé, presenta già i limiti di ciò che intende contestare, ovvero l’approccio moralistico all’agire politico.