Non è il classico film di montaggio che unisce sequenze selezionate da pellicole per dare una visione d’insieme di un periodo storico, Da Caligari a Hitler, che ha aperto martedì (repliche il 24 gennaio e il 3 febbraio) nello Spazio Oberdan a Milano la rassegna Il cinema di Weimar, il documentario firmato da Rüdiger Suchsland, critico tedesco e attivista culturale (come lui stesso si definisce), qui all’esordio nella pratica cinematografica.

«Il punto di partenza era fare un film sul periodo della Repubblica di Weimar prendendo spunto dal famoso saggio di Siegfried Kracauer», spiega il regista. Erano gli anni venti, in cui le voci critico-teoriche importanti furono quelle di Adorno, Walter Benjamin, Jacques Offenbach. Era stato Adorno a definire la «cultura popolare» (in tedesco «Volkskultur»), quel concetto base usato anche da Bertold Brecht nel suo teatro (siamo infatti nello stesso periodo, e il suo voleva essere un intrattenimento semplice capace di «risvegliare» il pubblico, la sua Opera da tre soldi è nel programma della rassegna), e quindi di una cultura per il popolo, appunto, non «populista». Sia ben chiaro.

«Nel suo Minima moralia Adorno cita parecchi esempi a proposito presi da cinema e teatro, stranamente non dalla musica, un testo che come quelli di Kracauer e di Benjamin sarebbero da leggere e rileggere, per la critica, oggi», suggerisce Suchsland, più nel suo ruolo di critico. «Ecco perché ho seguito quel filo per analizzare il cinema di Weimar, non doveva essere né una lettura off di suoi brani, né una illustrazione di questi, quanto rendere sul piano visivo il suo punto di partenza teorico, il suo concetto analitico-critico nel cinema. Le domande che lui poneva, stimolavano risposte provocatorie. Preferiva interrogarsi su una questione piuttosto che proporre facili soluzioni precotte o descrizioni noiose di contenuto, da vero e proprio teorico della cultura qual era, andò a pescare nell’inconscio collettivo».

Secondo Suchsland, la fenomenologia kracaueriana andrebbe attualizzata per riscrivere (forse) una ipotetica altra storia del cinema tedesco, proprio a partire dal concetto: che cosa racconta un film? Il suo materiale di costruzione sono immagini che narrano anche al di là della loro superficie, a volte anche tra una e l’altra, oppure rimandano a ciò che potrebbe esserci ai margini. Per cui ogni film ha bisogno di «essere guardato», nel senso di prestare attenzione al piano visivo.

Suchsland vuole poi porre nuovi interrogativi allo spettatore di oggi, tentando anche di capovolgere i luoghi comuni. «Basta pensare a Menschen am Sonntag (Gente di domenica) che descrive con leggerezza nuovi stili di vita, in quella Weimar democratica, dove le giovani generazioni cercavano nuovi modi di essere, moderni, simili al flaneur descritto da Benjamin, e in questo film sono rappresentate queste atmosfere, questi stili di vita. Altrettanto importante è rivedere I nibelunghi di Lang, il cui contenuto, si sa è leggenda tedesca». Certo se lo si racconta semplicemente, risulta arcaico ma visto secondo il concetto di cui sopra lo si può ricollegare al genere fantasy, al lato oscuro-gotico nello spirito germanico, soprattutto la seconda parte, La vendetta di Krimhilde.

L’analisi di Suchsland rispetta le teorie di Kracauer grazie a un montaggio spesso in contrappunto tra immagini e commento, proprio per far riflettere in modo analogo il pubblico e la critica: i film narrano storie che vanno oltre lo stesso film, e come si possono attualizzare le opere di quel periodo storico? Che cosa è interessante per noi oggi? Così l’esordiente regista è andato alla ricerca di paralleli, per facilitare l’accesso allo spettatore, seguendo un filo di costruzione non lineare e tanto meno cronologico, quanto piuttosto il concetto di Benjamin dell’ «angelo della storia rivolto all’indietro» e di quello del filosofo tedesco Schlegel, per cui il profeta volto verso il passato può ritrovare il futuro nel presente. I brani direttamente citati del saggio sono in parte fedeli, altri sono stati semplificati.

Una metodologia efficace e che stimola riflessioni. Insomma al pari di Kracauer, Suchsland riesce a farci riflettere con chiarezza e originalità su quello che era alla base del saggio scritto nel 1947, dove si cercava di individuare aspetti sociologici nella Germania a partire dagli inizi del cinema (1895) fino all’ascesa di Hitler (1933). La tesi è nota: una deriva, «una inclinazione collettiva» verso il macabro e il marcio parallelamente a una sempre più crescente insicurezza sul piano socio-politico-culturale che avrebbe poi mandato in crisi la democrazia, e di cui bisognerebbe tener conto nell’analisi più profonda del nazional-socialismo. Già negli articoli usciti prima dell’emigrazione, Kracauer aveva scritto nel 1931 a proposito di Metropolis di Fritz Lang (che chiude la rassegna il 16 febbraio): «l’inconscio collettivo parla con chiarezza nel sonno». Va però sottolineato che non lo intendeva, in senso freudiano, negativo per il popolo tedesco, ma come una conseguenza di determinati sviluppi storici di cui aveva parlato anche nella sua analisi della propaganda nazista nel 1937.

Ecco dove sta l’attualizzazione, nel film di Suchsland, a parte quella di mostrarci anche la leggerezza di quel periodo, oltre al classico tenebroso espressionista: dove ricercare oggi quel tipo di «inconscio collettivo», nelle nostre immagini, nelle nostre tecnologie, oggi?
Anche Kracauer era un flaneur, versatile nella sua attività di scrivere articoli, romanzi gialli e racconti pulp. Amava vivere alla giornata, passare molto tempo nei caffè, leggere i giornali e farsi distrarre dai suoi molteplici interessi: ciononostante fu proprio questa apparente dissipazione a generare questa «sociologia del sapere» – come sottolinea ancora Rüdiger Suchsland, paragonandolo alla personalità di un Umberto Eco.