Durante il mio lungo soggiorno in carcere e al confino ho naturalmente avuto fin troppo agio di riflettere non solo sulle particolari condizioni in cui vivevo, ma anche sul principio stesso della pena carceraria. Durante i miei dieci anni di prigione ho assistito ad alcuni lievi addolcimenti della severità del regime carcerario. La segregazione cellulare è stata ridotta a più piccole proporzioni; la durata delle punizioni in celle di rigore è stata quasi dimezzata; i reclusi hanno visto il loro corredo accrescersi di calze e di una forchetta di legno; le biblioteche si sono arricchite; la pasta asciutta è stata distribuita cinque volte all’anno anziché tre; l’intervallo fra le visite dei familiari è diminuito, e si è ottenuto di scrivere lettere più frequenti. Non si trattava però che di lievi increspature su una superficie che rimaneva monotonamente eguale.

A PENSARCI BENE, credo che, per quanto si voglia trasformare e perfezionare il carcere, non lo si può modificare in modo sostanziale. Naturalmente è possibile migliorare il cibo, rendere più igieniche le celle e le camerate, dare più svaghi e più lavoro, e simili. Ma ciò non altera il dato essenziale, che consiste nel tenere degli uomini in gabbia, nella impossibilità di sviluppare una vita normale, privi quasi completamente di una tutela giuridica.
Vorrei perciò parlarti non già di questo o quel difetto da correggere nel sistema carcerario, ma del suo significato profondo. Se non erro, il carcere è concepito comunemente come uno strumento di pena e di rieducazione alla vita civile. Per quel che possono valere le mie osservazioni ed esperienze, ti assicuro che si tratta di due grossolane mistificazioni.
L’uomo è nella sua media un animale talmente abitudinario da esser capace di soffrire solo se la pena è di breve durata. La condanna al carcere è sentita come una sofferenza per uno o due anni al massimo. Il condannato soffre per l’interruzione delle sue abitudini, delle sue relazioni umane, dei suoi bisogni sessuali, per il peggioramento del cibo, per la soggezione in cui si trova rispetto ai suoi guardiani. Soffre perché è tutto teso verso la libertà che gli manca. Col passare del tempo infatti i rapporti con il mondo esteriore diventano qualcosa di evanescente. In poche parole, il carcere diventa una piccola società cenobitica, in cui si vive, cioè si soffre e si gode, si piange e si ride, come in tutte le società. È una vita meschina, monotona, ripugnante a vederla dal di fuori.

IL POSTO ASSEGNATO a ognuno non può essere modificato, e perciò non possono svilupparsi ambizioni né in bene né in male, oltre quelle di diventare spazzino o scrivanello. Non ci si può elevare al di sopra, né cadere al di sotto del livello di vita fissato dalle leggi carcerarie.
Il governo dei guardiani e dei direttori è dispotico; mancando in questa società ogni divisione di poteri fra i governanti; e si verificano perciò abusi ed ingiustizie di ogni genere. Ma anche a questa mancanza di diritti ci si abitua. Cosa resta più allora dell’idea della pena? Il carcere è un insieme di regole ascetiche imposte al delinquente allo scopo di indurlo a riflettere sul delitto commesso. Ma la purificazione mediante l’ascesi è un procedimento che ha efficacia solo per chi ha la vocazione della santità.
E poiché il delinquente non è davvero uno stinco di santo, egli non viene incontro al carcere con animo contrito, ma con l’animo dell’uomo medio che si prepara a studiare le circostanze in cui è ormai obbligato a vivere, per sistemarvisi nel modo migliore possibile. Ma chi pensa che il carcere, comunque modificato, possa essere uno strumento di redenzione morale e sociale è vittima non di una illusione, ma di una ipocrisia. In realtà, se si ha un’idea di quel che sia la dignità umana, bisogna dire che nessuno ha il diritto di giudicare sulla redenzione di un altro essere umano, perché chi è obbligato a cercare che un tal giudizio sia reso su lui, è con ciò stesso obbligato a dannarsi.