È impossibile sintetizzare la trama complessa degli interessi di ricerca di Benedetto Vecchi, ma ci si può concentrare sulla componente del suo pensiero relativa all’analisi della tecnologia digitale, passando per le piattaforme e tutte le infrastrutture legate all’intelligenza artificiale.

Il suo sguardo attento e originale è stato tra i primi in Italia a ripudiare l’orientamento salvifico che ha considerato Internet una magnifica ossessione naturalmente benefica per la società. La sua analisi tagliente ha fatto emergere le contraddizioni e le ambivalenze della dipendenza indiscriminata da un sistema di comunicazione che aveva la sua base teorica e tecnica nelle stanze dei venture capital della Silicon Valley. È sempre stato lontano dalla tentazione del soluzionismo tecnologico.

Ha intervistato – spesso per primo – le maggiori personalità del settore, cogliendo i punti nevralgici del dibattito sempre in anticipo sui tempi. Benedetto ha rappresentato in Italia un caso unico di giornalista, divulgatore e insieme ricercatore capace di dialogare sia con la filosofia della tecnologia sia con i grandi tycoon dei colossi hi-tech, senza dimenticare la lotta alle disuguaglianze e la tutela delle fragilità. Ha guardato alla tecnologia dalla lente della lotta di classe, chiedendosi cosa Internet e Intelligenza Artificiale avrebbero potuto offrire per una società più giusta, equa, inclusiva e rispettosa delle differenze.

Rileggendo i suoi articoli oggi, oltre ai suoi ultimi libri pubblicati sulla rete e sulle piattaforme (La rete dall’utopia al mercato, manifestolibri 2015; Il capitalismo delle piattaforme, manifestolibri 2017) siamo ispirati dal passo sempre inaspettato e obliquo con il quale si inerpicava nelle questioni cruciali. La bussola è sempre il Politico con la «P» maiuscola come usava dire: la critica dell’economia politica della rete prima, e dell’intelligenza artificiale poi; la consapevolezza che le macchine non agiscono autonomamente, non sono neutrali ma sono il frutto di chi le concepisce, le programma e le mette al lavoro.

Un punto fermo era l’indagine sulla materialità della tecnologia. Se i sistemi possono funzionare a distanza e sono considerati virtuali non significa che siano meno concreti: i rapporti di forza hanno conseguenze sulle trasformazioni tecnologiche dei processi di produzione e di comunicazione. I Big Data sono metodi di sapere/potere che si trovano in precisi luoghi geo-politicamente concentrati nella Silicon Valley e in altri centri nevralgici come la Cina. Si tratta di tecniche di espropriazione e alienazione che hanno conseguenze in termini di disparità di trattamento, asimmetria della capacità di intervento politico e aumento delle iniquità di giudizio sui diritti sociali dei cittadini. Il processo di individuazione del futuro messo nella forma della predizione non è altro che «una pratica manipolatrice dei comportamenti individuali e collettivi».

L’Intelligenza Artificiale si presenta come l’ennesima prassi di cattura e alienazione dell’intelligenza umana nella forma di un sistema di potere in grado di automatizzare anche i processi cognitivi e metterli a valore. La predittività esercitata dai sistemi di machine learning e deep learning – la più avanzata punta dell’emulazione dell’intelligenza umana – non è altro che un intervento di chi esercita il potere per modificare i comportamenti e farli aderire alle aspettative. Gli algoritmi per la presa di decisione (Automated Decision Making ADM) sono orientati a una visione dei fenomeni utile a chi li controlla, che maschera i propri obiettivi dietro concetti – ingiustamente considerati oggettivi – come efficienza e ottimizzazione, per giustificare le scelte di chi detiene il potere.

Tutto questo Benedetto lo ha compreso molto prima di altri. Come un detective dell’oscurità – forte della sua passione per la fantascienza – non ha mai avuto paura di scendere negli atelier della produzione, anche di quella digitale per mostrare che il lavoro non è stato eliminato dall’Intelligenza Artificiale, ma solo sottratto alla vista e soprattutto alle garanzie per i subalterni. Le piattaforme digitali guadagnano attraverso lo scarico dei rischi sui lavoratori, tenendo per il capitale solo il ritorno sicuro dell’investimento, con la compiacenza di una legislazione tardiva o miope.

Nelle aziende come Amazon, Facebook, Alphabet (Google), Microsoft, Apple la materialità dei processi produttivi e di costruzione di valore ha sempre bisogno di manodopera, solo che questa viene sottopagata o non pagata affatto, usando la tendenza delle persone a rilasciare gratuitamente la propria attività sui social, o a socializzare i loro mezzi di produzione mettendoli, però, a servizio del capitale – non importa se siano attuali o virtuali.

Eppure, anzi proprio per questo Benedetto non ha mai interrotto la sua attività militante, strategica per attivare un contropotere sociale allo scopo di condividere attività propriamente umane. La ricerca di sapere per lui non è mai stata slegata dall’attività politica e organizzativa, propedeutica all’azione in favore dei processi di ristrutturazione della produzione per renderla comune, equa e inclusiva.

Benedetto ha perseverato nella sua volontà strenua, testarda, invincibile di intervenire sulla società per combattere le ingiustizie. Sapeva che per farlo occorreva il coraggio di abbattere gli steccati che inutilmente separano la cultura dalla tecnologia. Ha pensato la tecnologia come una nuova cultura e non ha mai indietreggiato di fronte alla possibilità che le macchine cambino la percezione di ciò che è umano, senza entusiasmi prematuri e senza preconcetti.

Il suo pensiero politico mira a progettare quelle forme di general intellect incarnate nella materialità dei rapporti di produzione – siano questi pure macchinici e artificiali – capaci di condurre alla condivisione di un agire a beneficio del comune. La sua ispirazione è così vivida che ci guida ancora, anche se non smettiamo di sentire la sua mancanza.