Oltre la storia che è di per sé materia sensibile, M (concorso internazionale) è un film che nel suo «dispositivo« illumina e interroga questioni essenziali rispetto al fare cinema «documentario» a cominciare dalla relazione tra il regista e il suo soggetto che in questo caso è determinante. È infatti attraverso il corpo del suo protagonista che Yolande Zauberman penetra nella sua storia, è lui con la sua presenza a «provocare», innestare reazioni, spalancare una realtà a cui lei non avrebbe mai accesso. E lo fa mettendo in gioco il proprio vissuto in un «doppio legame» con la regista che a sua volta, nelle risposte suscitate dal suo personaggio focalizza una ricerca su un mondo, e soprattutto sul maschile.

Il titolo gioca – e non a caso – con l’assonanza tra il nome del protagonista, Menachem, e il film di Lang, M, (1931), il «Mostro» seriale (anche se M sta per Mörder, assassino) che violentava e uccideva le bambine nella Berlino dell’epoca.
Perché di stupro, e di pedofilia, parla il film di Zauberman, regista che nel suo lavoro di documentarista sembra prediligere lo scontro, il conflitto come strumento di indagine – il precedente, Would You have Sex with an Arab? (2012) poneva questa domanda a diverse persone, a Tel Aviv, per lo più fermate nelle notti della «bolla» come chiamano la città alcuni i abitanti, tra i frequentatori di locali, bar, discoteche quasi a «smascherare» l’idea diffusa del politicamente corretto. Anche M è girato in Israele, il suo protagonista viene da Bnei Bark, a sud di Tel Aviv, cittadina ultrartodossa (e povera) abitata dagli hassidici dove si parla yiddish e la vita sociale e privata è normata dalla religione.

Menachem è stato violentato a ripetizione, e senza difese, per tutta l’infanzia, bello, con la voce straordinaria allenata nei canti liturgici da ragazzo ha recitato in Kedma (2002) di Gitai – e con Gitai, come assistente ai tempi di Esther ha cominciato a lavorare anche la regista – e oggi continua a cantare e a lavorare come attore. Da Bnei Bark è fuggito quindici anni fa, ha abbandonato la religione, la famiglia, il padre, la madre, i numerosi fratelli, quella «comunità» che gli ha devastato «il corpo e l’anima» da cui non ha mai ottenuto giustizia (scopriamo che in Israele la violenza sui minori è punita al massimo con sei anni di prigione). Le ferite se le porta dietro sempre – non si può dimenticare la violenza dei rabbini, degli studenti più grandi, le parole del padre che di fronte la sua disperata richiesta di aiuto lo marchia con l’etichetta di «impuro», è lui che non si è sottratto, è lui che aveva in sé qualcosa di sbagliato.

Diretto, sovraesposto, quasi febbricitante nel mettersi a nudo davanti alla macchina da presa Menachem ha denunciato tempo prima uno dei suoi stupratori riprendendolo di nascosto: uno scandalo e l’esclusione definitiva dalla comunità. Che continua però a portarsi dentro, nella sua irrequietezza, nel dolore di domande rimaste senza risposta, nella fatica di posizionarsi rispetto al mondo, in una sessualità che dichiara passione sfrenata per le donne ma: «Riesco a rimanere abbracciato tutta la notte solo a un transessuale».

Il film è il suo ritorno, la ricerca di risposte; Menachem permette a Zauberman di varcare la soglia di un universo proibito a una donna mentre lei, il suo sguardo (e la macchina da presa) costituiscono per il ragazzo l’arma con cui confrontarsi con la propria esperienza recuperando anche quei legami familiari – pure se a distanza. Rapporto complesso con il rischio di una manipolazione reciproca. E se fosse necessaria?
È qui infatti che Zauberman trasforma la ricerca interiore di Menachem in qualcos’altro, in un «dispositivo» all’interno del quale l’esperienza del ragazzo si fa segno di una intera comunità. Menachem è dentro e fuori, viene da lì ma ha vissuto altrove, porta con sé altre conoscenze, può affrontare soggetti per loro impensabili.

Come lui tantissimi altri ragazzini sono stati violentati dai rabbini, dai fratelli maggiori, dai padri, e ne parlano quasi senza timore – solo uno che sta per sposarsi si fa riprendere di spalle, divorzierà quattro mesi dopo il matrimonio. È un sistema a cui è difficile sottrarsi perché appare fondante la vita collettiva di regole e obblighi religiosi, di silenzio e rifiuto di vedere, così come la paura che vive in ciascuno di loro, continuare cioè «il circolo vizioso», diventare stupratori a loro volta come è accaduto ai loro carnefici che erano stati tutti vittime di violenze.

Menachem prova rabbia e dolore anche se il suo è un rapporto ambivalente, in quel mondo continua a riconoscersi, a riconoscere le proprie origini, un’appartenenza familiare nonostante tutto. Ogni passaggio più intimo – come la conversazione col padre, terribile – per il ragazzo è insieme privato e pubblico, segna la presa di parola nella reciprocità contro la solitudine del silenzio. L’assenza è il femminile, il corpo della donna, un frammento che fa proprio la regista restituendo l’immagine di un femminile visto dall’uomo, amplificata dalla religione ultraortodossa – di qualsiasi segno – ma con tentazioni estremizzate che in fondo ricorrono in qualsiasi atteggiamento machista.

Zauberman si colloca tra gli uomini – non ci sono donne se non intraviste a distanza – per rendere una percezione delle donne di maschi che conoscono sin da piccoli solo il corpo e il sesso maschile, che pensano che le donne non abbiamo genitali, che con le mogli possono fare sesso solo durante lo Shabbat e per concepire figli, che hanno paura di essere scoperti. Anche questo è «il sistema».