Paolo Fabrizio Iacuzzi torna nelle librerie col suo sesto libro, Folla delle vene (Corsiero, pp. 80, euro 13) con nota critica di Pasquale Di Palmo, dove – come nei precedenti – un colore, questa volta il rosa, permea uno spazio, una memoria. Il colore dice Iacuzzi: «innesca un’antropologia privata alla luce di un’antropologia maggiore»; con la sua complessa simbologia, segue tutti i lavori del poeta a cominciare dal bianco di Magnificat (1996), opera già recensita da Giudici, sino ad arrivare al verde di Pietra della pazzia (2016). Il rosa così tenue, rilassante, in verità in questo libro è portatore di contraddizioni, conflittualità, talvolta abissalità. Si pensi al corpo di poesie, dal titolo: Magliarosa Frankenstein, o all’ultima quartina della prima poesia dal titolo Maestro della rosa, dove si torna a toccare un’esperienza lancinante e fondativa del ‘900 europeo parlando di: «triangolo rosa appuntato sul petto» che era quello degli omosessuali imprigionati nei campi di sterminio.

Part. Vergine delle Rocce di Leonardo

TUTTO IL LAVORO di Iacuzzi, e ancor di più qui in Folla delle vene, potremmo definirlo visionario; non a caso somigliano le sue stanze poetiche a immagini in movimento, diapositive di vita personale ma anche comunitaria, con la ricchezza espressionista dei grandi quadri rinascimentali. Non a caso egli stesso definisce, in esergo, il suo lavoro di scrittura appunto come «una vita a quadri» e così nel libro è molto indicativo il sottotitolo alla parola, tra l’altro a introduzione di molte pagine, che recita: Il museo che di me affiora. E il museo inteso da Iacuzzi, non è quello tradizionale fatto di simboli impagliati e vuoti ma quello popolato dall’evento sempre mobile, chiamato memoria. Ne deriva allora, da questo museo-pagina una parola che da una parte indaga il tempo dell’esperienza, dall’altra quello dell’arte, che è poi il tempo dello spirito; le storie dei giorni rincorrono quelle dei quadri che rimandano sempre a una dimensione altra.

STILISTICAMENTE il poeta dà prova di non amare le forme chiuse tradizionali, nel momento in cui adotta sì le terzine e quartine che però si basano su versi liberi e non su rime ed endecasillabi. Folla delle vene è libro complesso, dentro parlano molte cose e così nel primo corpo di scrittura intitolato: Il tempo degli amici, vi è l’incontro tra poeti di lingue diverse che cercano di tradursi. Ogni poesia inizia con questo verso: «Non c’è più tempo amici per le cose». I temi della precarietà dell’esistere si innestano dentro la gioia della relazione e tutto scandito da quel verso sempre uguale che continua a tornare in attacco di ogni pagina: «Non c’è più tempo», per dare ritmo e accompagnare il lettore al fuoco di una constatazione che da personale si fa collettiva. A cornice del capitolo, tutto il grande discorso sul senso della traduzione, sulla fedeltà della stessa al contenuto linguistico originario: «Anche il mio verso sotto il peso delle traduzioni/ ha finito per cedere. Ha creato spazi fessure.// È crepata la parete da scalare. Oramai il verso è solo». Ecco poi ritornare il rosa, nella maglia di Pantani che ascende il Mont Ventoux e anche qui il colore si carica di un senso di inquietudine rappresentato dalla gloria e dalla sua fugacità: «Piegato di lato non può alzarsi in sella./ Girato di tre quarti sul triclino vede già// la polvere negli occhi».

SIMBOLOGIA che chiede di essere compresa, il colore rosa appunto, la bicicletta, che rimanda a quella bianca del suo primo libro Magnificat o alla mitica bicicletta di Annina di caproniana memoria. Parole-simbolo sono seminate in tutte le storie limpide e oscure del poeta, ma cosa domina sempre in questi versi-frammento? L’attimo, la provvisorietà di tutti noi, illuminata però da quel momento di luce e abisso che solo la poesia sa creare e far vivere. E in taluni corpi poetici come Meditazioni sopra il mosaico di Teodora a Ravenna o Meditazione sopra la vergine delle rocce di Leonardo, l’arte figurativa, così centrale nella poetica di Iacuzzi, si contamina di vita e le figure dipinte, talvolta entrano nell’oggi con tutto il suo tumulto: «Anche noi siamo dentro il quadro di Leonardo/ mentre giochiamo da bambini. Rapiti insieme/ dalla Vergine delle Rocce. Mentre loro parlano/ sommesse per non disturbare i nostri giochi». Pervade un senso di interrogazione e spaesamento continuo che non trova appoggi, eppure da questa consapevolezza matura quel rafforzamento interiore che il libro sembra voler trasmettere come dono. Viene in mente quella magistrale opera di Mario Luzi, Su fondamenti invisibili. È come se anche Iacuzzi, questi fondamenti, li disegnasse ma cucendoli nel risvolto di ogni sua parola. Spetta a chi legge rigirarla per trovarne in filigrana il tesoro nascosto