Si è chiusa una delle partite più delicate che il Governo Conte aveva di fronte, ossia la nomina dei vertici delle grandi aziende controllate dallo Stato.

Il dibattito politico e le polemiche hanno come sempre concentrato l’attenzione sui nomi e sui retroscena, su vincitori e delusi. Pochi hanno sottolineato l’errore compiuto nel gestire la partita come se vivessimo tempi normali. Come se fosse ordinaria amministrazione, che nulla ha a che fare con le crisi che stiamo vivendo. Ossia quella economica, che ci accompagnerà per mesi, e quella climatica dalle prospettive drammatiche.

Proprio su questo tema, solo sette mesi fa, questo Governo si era presentato con promesse strabilianti.

Conte, Zingaretti e Di Maio avevano fatto a gara nel rilanciare l’impegno ad una svolta ecologica per il Paese. Non è questa la sede di un bilancio sull’agenda parlamentare su questi temi, per ora deludente, ma si può senz’altro affermare che nella vicenda delle nomine il segnale che viene dato è netto.

La conferma di Descalzi ai vertici dell’Eni è emblematica, le cronache raccontano di un Pd che si è trincerato dietro le raccomandazioni del Quirinale di evitare, in una fase come questa, scossoni ai vertici delle grandi aziende. Se non si voleva guardare alle critiche sulle scelte di investimento di questi anni incentrate sulle fossili e alle indagini giudiziarie internazionali, la responsabilità della politica sta almeno nell’andare a vedere gli impegni per il futuro. E quanto i vertici del colosso a sei zampe promettono per la decarbonizzazione al 2050, su rinnovabili e biochimica non appaiono credibili o sufficienti.

Meno attenzione è stata posta sul sorprendente cambio ai vertici di Terna. Perché in questi anni l’azienda che gestisce la grande rete di trasmissione dell’energia è passata dall’essere una struttura neutrale, che doveva garantire la sicurezza del sistema, a diventare protagonista della transizione energetica verso le rinnovabili. Alcune scelte del Piano di Terna, come i nuovi collegamenti marini tra Sardegna, Sicilia e il continente – con integrati sistemi di accumulo – sono la condizione per arrivare nel 2025 a chiudere le famigerate centrali a carbone, come previsto dal Piano energia e clima.

Sostituire i vertici con un manager che proviene dalla municipalizzata di Roma lo si può comprendere nella partita a scacchi tra 5 Stelle e PD, molto meno se lo si guarda dagli obiettivi che si vorrebbero realizzare in Italia nei prossimi anni.

Di positivo c’è la conferma a Enel di Starace, perché in questi anni l’azienda è diventata leader internazionale nelle fonti rinnovabili e nell’innovazione che sta accompagnando in tutti i settori la decarbonizzazione. In questo caso la domanda che il Governo dovrebbe porsi è un’altra, ossia come fare in modo che Enel nei prossimi anni sia protagonista anche in Italia della transizione su cui sta riscuotendo successi dagli Stati Uniti al Sud America all’Africa.

E qui torniamo alla questione da cui siamo partiti: queste grandi aziende possono svolgere un ruolo per aiutarci ad uscire da quelle due crisi? Già conosciamo la risposta: lasciate fare ai manager, alcune di queste aziende sono quotate in borsa e la politica non deve metterci le mani.

Tutto vero, ma in Francia e Germania le grandi aziende pubbliche sono coinvolte nel portare avanti gli obiettivi strategici del Paese. Perché questo è il compito della politica, individuare le priorità e le strategie per portarle avanti, e sarebbe sciocco rinunciare a coinvolgere aziende di questa dimensione ma anche non valutare i manager sulla base di questi parametri.

Una ricerca del Forum disuguaglianze che verrà presenta nelle prossime settimane sta approfondendo proprio questo tema. Di grande attualità e utilità perché il nostro paese avrà di fronte alcune sfide enormi di innovazione industriale e di cambiamenti nel lavoro. E nessuna azienda da sola potrà competere in settori dove le capacità di ricerca e investimento saranno fondamentali, come la biochimica e la salute, la transizione all’elettrico nell’automotive, l’eolico off-shore galleggiante, il riciclo di rifiuti speciali.

Servirebbe una strategia come Paese per accompagnare ricerca e sviluppo, che aiuti a mettere assieme su alcune sfide imprese grandi e piccole, pubbliche e private, università. Come fa la Germania attraverso l’organizzazione di consorzi che poi si porta anche dietro nei Paesi con cui fa cooperazione internazionale.

Come in parte faceva in passato anche il nostro Paese quando quelle grandi imprese contribuivano a una quota rilevante della ricerca nazionale.

Possibile che da noi sia un tabù coinvolgere in una strategia del genere Leonardo, Eni, Enel, Saipem, Terna che già in parte lo fanno per conto proprio? L’impressione è che più che la paura di essere accusati di voler costruire una nuova Iri in questa fase alla politica manchi la capacità di progettare il futuro. Ma nella tempesta del corona virus non possiamo davvero più permettercelo.

L’autore è vicepresidente nazionale di Legambiente