Strappare lungo i bordi, la serie animata del fumettista Zerocalcare prodotta da Netflix, è stata rilasciata la settimana scorsa ma la percezione è che sia trascorso molto più tempo per la quantità di articoli, discorsi, dibattiti e post che ha generato. In seguito all’accoglienza entusiasta da parte di pubblico e critica si è poi insinuata, sempre più prepotentemente, la polemica: Zerocalcare parlerebbe troppo «romanaccio». Da queste esternazioni è scaturito un vortice che ha coinvolto in un bislacco tango Giletti e Dante, la tv pubblica e Pasolini, influencer difensori della lingua italiana e Gadda, Roma contro Milano e si potrebbe continuare. Cercando di mettere un po’ di ordine, gli indignati additano Michele Rech – questo il vero nome del disegnatore – di risultare incomprensibile tra un «aò» e l’altro, o «ahó» come vuole Treccani, nel caso si desideri aprire una questione anche sulla corretta ortografia dell’interiezione romana.

IL RISENTIMENTO però non si ferma qui e trascina con sé oscure passioni covate da tempo, un rimuginio che aspettava forse solo l’occasione per manifestarsi, così riassumibile: «Avete stufato con questa tv romanocentrica, ci sentiamo offesi ed esclusi, vogliamo che sui nostri schermi si parli un corretto italiano». Tra un malcelato complesso di inferiorità dei nordici, che vedono i propri dialetti poco rappresentati nei programmi, e la supposta superiorità ostentata dai romani, quella esposta sopra è un’accusa che non ha alcun senso in relazione a Strappare lungo i bordi. Cosa c’entra una diatriba sulla dizione dei presentatori Rai con un prodotto artistico e commerciale diffuso da una società privata? Nulla, naturalmente.

ENTRANDO NEL MERITO si potrebbe fare invece un altro appunto, ovvero che quando a parlare è il personaggio dell’armadillo, l’unico doppiato da Valerio Mastandrea, il romano rimane ma l’effetto è sicuramente diverso rispetto alla parlata di Zerocalcare, prestata a tutti gli altri personaggi. Per fortuna, verrebbe da dire, perché se fosse vero il contrario significherebbe che il povero Mastandrea ha buttato anni della propria vita per fare qualcosa che anche un disegnatore, che non ha mai lavorato sulla propria voce, può fare senza che si noti alcuna differenza. Si potrebbe allora chiedere: perché la scelta di far parlare Michele Rech e non qualcun altro? Se si guarda senza pregiudizi la serie, e si leggono magari un po’ di quei «disegnetti» (come li chiama il suo autore), è evidente che il mondo impresso nelle tavole di Zerocalcare non è altro che un teatro mentale appartenente solo e soltanto al suo artefice, al suo «sognatore» come direbbe Lynch.

AL PUNTO che quando in Strappare lungo i bordi i personaggi principali arrivano a Biella, gli abitanti del luogo parlano anch’essi in romano, perché «l’artri accenti nun li so fa’». Oppure pensiamo alla trovata geniale di far esprimere con un verso robotico l’amica Alice, perché è effettivamente difficile riprodurre mentalmente la voce di qualcuno richiamandola nel ricordo – e perché poi, noi come Zerocalcare, non siamo sempre così in ascolto delle persone che ci circondano. Affidare il doppiaggio a un attore avrebbe quindi significato tradire profondamente il senso del progetto, separare quei personaggi dalla loro ideazione e dal loro mondo, rendendo la serie un prodotto conforme e standardizzato. In nome di cosa?

LA REALTÀ è che Netflix ha compreso molto meglio dei sedicenti difensori della lingua che, soprattutto con un pubblico giovane, attraggono molto di più – e dunque vendono molto di più – prodotti incentrati su vissuti peculiari e unici, persino estremi, in cui potersi o meno riconoscere (pensiamo al fenomeno SanPa o alla serie sui seguaci di Osho, Wild Wild Country). Il contrario quindi della spersonalizzazione a cui tutte queste critiche in fondo mirano. «Abbandona il romanesco e andrai lontano» si è sentito dire in questi giorni – tra l’altro, come ha fatto notare la scrittrice Ilaria Beltramme e rimanendo in tema vocabolario, si dice «romano» e non «romanesco», parola quest’ultima con cui i piemontesi apostrofavano i romani nell’Ottocento, e il cerchio si chiude – questi consigli paternalistici sarebbero stati solamente controproducenti alla riuscita della serie. Infatti, ciò su cui fa leva l’appeal di Zerocalcare – oltre a un indiscusso talento – è il recupero in chiave autoironica di quel microcosmo che sono stati, e che in parte sono ancora, i centri sociali romani con la loro musica, i loro stilemi, la loro forza aggregativa e anche il loro slang di periferia. È questo il retroterra su cui Michele Rech proietta se stesso e costruisce le proprie storie ed è questo richiamo che in fondo non è apprezzato da tutti.

UN ASPETTO messo ancora più in risalto dalla polemica rilanciata dai media turchi, per i quali il programma sarebbe invece da condannare per il suo far mostra di un vessillo del Pkk e di una bandiera delle milizie curde di autodifesa popolare Ypg. Non dovrebbe stupire, considerato il fumetto del 2015 Kobane Calling in cui l’autore raccontava il suo viaggio con un gruppo di volontari al confine tra Siria e Turchia, a poca distanza dall’assediata Kobane, simbolo di resistenza per l’indipendenza del Rojava nel Kurdistan. La mancata presenza di un tale immaginario in Strappare lungo i bordi avrebbe significato il misconoscimento, da parte di uno Zerocalcare alla ricerca di successo, della propria identità e di ciò che lo ha reso diverso dagli altri. Così non è stato, e se per chi lo ha conosciuto negli ambienti antagonisti è stato sicuramente strano vedere il fumettista sulla copertina de L’espresso definito come «L’ultimo intellettuale», c’è da dire che il fenomeno Zerocalcare porterà auspicabilmente i suoi buoni frutti grazie all’ampissima diffusione che sta conoscendo, trasmettendo per lo meno la curiosità di mettere piede in uno spazio sociale a tanti giovani che non ne hanno mai frequentato uno. Di questo a Netflix non interessa nulla, fortunatamente.