L’epilogo rapidissimo e tragico, all’inizio dell’estate del 1940, della drôle de guerre – la guerra fittizia, o appunto farsesca, dichiarata dagli Alleati alla Germania nazista nel settembre del ’39, trascinatasi per otto mesi in schermaglie attendiste, per poi risolversi improvvisamente, in poche settimane di Blitzkrieg, con l’occupazione tedesca di una buona metà della Francia e con un armistizio inglorioso – rimane ancora oggi un trauma inaccettabile per la coscienza nazionale d’Oltralpe. Vent’anni dopo, nel 1960, la disfatta ha trovato una labirintica trasfigurazione letteraria in uno dei romanzi più belli, e meno letti, del secondo Novecento, La strada delle Fiandre di Claude Simon, da poco tornato in libreria anche in Italia, per Neri Pozza (traduzione di Guido Neri, pp. 272, euro  14,00). Ma fin dai giorni immediatamente successivi allo choc della sconfitta, due intellettuali, entrambi di origine ebraica, però lontani quanto a storia personale e formazione, avevano cercato di trovare nella scrittura un sollievo all’impotenza: con l’impulso rabbioso, e non rinviabile, di fare i conti con un crollo militare e morale che lasciava increduli anche quanti lo avevano in qualche misura paventato.

Il primo è un grande storico, Marc Bloch, il secondo un romanziere minore, Léon Werth, che aveva riscosso un qualche successo di scandalo con libri antimilitaristi come Il soldato Clavel e anticolonialisti come Cocincina. Abituato a misurarsi con le costanti della longue durée, Bloch si rivela nondimeno capace di affrontare l’opacità frastagliata del presente, con l’umiltà indignata di chi si propone di stendere niente più (e niente meno!) che un «verbale dell’anno 1940». In pagine scabre e tese, quasi incalzate dagli eventi – scrive poco prima di entrare nella Resistenza e di morire per la libertà – riesce con stupefacente e insuperata lucidità a individuare le ragioni sia militari, sia socio-politiche, sia soprattutto etiche e culturali, del crollo della Nazione, affidando a un racconto essenziale (nessuna concessione «alle risorse stuzzicanti del pittoresco e dello humour») e a una requisitoria senza sconti il memorabile «esame di coscienza di un francese»: il suo libro, La strana disfatta, incredibilmente non più disponibile nell’edizione Einaudi, è in libreria, con il corredo di altri scritti della clandestinità, per Res Gestae (pp. 212, euro 16,00).

Se Claude Simon e Marc Bloch, militari in servizio, hanno vissuto la sconfitta sui campi di battaglia (il primo, fatto prigioniero dai tedeschi, riuscirà a evadere; il secondo partecipa alla ritirata nel Nord e ripara provvisoriamente in Inghilterra), di un altro esodo – quello dei civili in fuga da Parigi all’approssimarsi della Wehrmacht – danno conto i 33 giorni di Léon Werth, assoluta novità per il lettore italiano (Bompiani, pp. 160, euro15,00) nella traduzione a tratti un po’ goffa di Alberto Pezzotta e con un’introduzione in forma epistolare (Lettera all’amico) di Antoine de Saint-Exupéry. Al successo del libro – un vero caso editoriale, quando uscì postumo, in Francia, nel 1992 – hanno certo contribuito la presentazione del più celebre sodale (che proprio a Werth ha dedicato Il piccolo principe) e le vicende rocambolesche del manoscritto: affidato da Werth all’amico aviatore, trasvolato a New York, due volte, durante la guerra, annunciato come d’imminente pubblicazione in America, per motivi mai chiariti rimasto inedito, e appunto fortunosamente ritrovato negli anni novanta dall’editrice Viviane Hamy. Ma il libro è bellissimo in sé, e anzi la sua parte meno felice è certamente l’introduzione del troppo celebrato Saint-Ex: che nei suoi conati sapienziali riesce a essere, come sempre, prolisso e lezioso, farlocco e pretenzioso.

Di nudi «fatti infinitesimali», di personaggi inermi e casuali, di situazioni al tempo stesso banali e inconcepibili, è invece intessuto il racconto di Werth, cui lo choc sembra togliere il più delle volte, fortunatamente, ogni velleità di commento.
Cifra del libro è infatti un attonito stupore, che si percepisce a ogni riga anche senza che venga reso esplicito: fin dall’incipit, a Parigi, quando il narratore è ancora convinto che «se le cose andassero così male, non penserebbero ad innaffiare l’erba» nei parchi (non certo con «un annaffiatoio», però, come scrive il traduttore); e poi nella «carovana interminabile», a bordo di una Bugatti e in compagnia della moglie e di un’amica, nel tentativo di raggiungere una casa di vacanze sulle colline del Jura. Il viaggio, che doveva durare una decina di ore, si prolunga per più di un mese, non senza che la rotta dell’esodo incroci uno scampolo di battaglia: nei pressi della Loira, sui fuggiaschi piomba il fuoco nemico, un cavallo morto stramazza sul paraurti della Bugatti, i soldati francesi con le uniformi a brandelli non oppongono resistenza. Ma sul sangue versato, sulle distruzioni ben tangibili, prevale un senso di irrealtà: confuso, sfrangiato, improbabile, il passaggio del fronte si trasforma in quadro astratto, o in rappresentazione teatrale dell’assurdo, nel momento stesso in cui avviene, in pagine di intensità quasi allegorica.

Nulla può trascendere l’opaca oggettività degli eventi: in tempo di guerra, Dio «fa pensare a quegli aggeggi multiuso disprezzati dai meccanici, e che sono contemporaneamente pinza, tenaglia, martello e cacciavite».
Se quella di Bloch è «testimonianza» anzitutto intellettuale, che rifiuta l’aneddotica autobiografica, Werth si appiglia invece ai minimi fatterelli quotidiani, agli incontri in apparenza più anodini, alle frasi colte per caso nella concitazione della fuga: riportandoli con stile asciutto, li trasforma in frammenti di un’epica negativa, in sparsi indizi di una verità storica in divenire, in tessere di un sinistro mosaico che prende forma con insospettata rapidità.

Così, nella diffusa rassegnazione, nei minimi egoismi di molti, nello sfrontato opportunismo di alcuni, Werth intuisce e quasi annuncia non solo gli scempi dell’occupazione (ciò che induce a paragonare 33 giorni a un classico della letteratura resistenziale francese, Il silenzio del mare di Vercors), ma anche le infamie del collaborazionismo. Di fronte alla viltà della resa, il non più giovane (ex) pacifista e internazionalista non può esimersi dall’osservare: «Per la prima e unica volta in tutta la mia vita, ho avvertito in me una volontà militare, una voglia di combattere».

I personaggi si dispongono in due opposte schiere con un’evidenza tanto inappellabile da sottrarsi a ogni rischio di didascalico manicheismo. Da un lato i borghesi spaventati dallo spettro del lontano comunismo sovietico più che dalle granate naziste piovute in patria: su tutti la ributtante Soutreux, castellana parvenue che offre champagne ai militari tedeschi e fa incetta di biciclette rubate; ma anche i fuggiaschi che progressivamente accettano «lo spirito della guerra», adeguandosi alla logica della razzia, pur di procurarsi «pane e benzina» (o perfino qualche bacca di ribes), e sono travolti in un «delirio di intolleranza»: automobilisti contro carrettieri, cittadini contro rurali.

Dall’altro lato Abel Delaveau, il contadino ospitale, depositario di una saggezza antica ma spregiudicata (e perciò capace di sbugiardare preventivamente il reazionario «ritorno alla terra» propagandato di lì a poco dal governo di Vichy); ma anche tutti coloro che, nella fuga come nella dura convivenza con l’occupante, recuperano il bene perduto collettivamente dalla Nazione: un comportamento invocato senza retorica, e in polemica contro i «bottegai dell’umanesimo». Perché «la misura della dignità non è aritmetica. Più piccolo è il fatto, e meglio si colgono tutte le sfumature della dignità e della libertà».