«Davanti al camino, il telefono. È accanto a me. A destra, la porta del salone e il corridoio. Alla fine del corridoio, l’ingresso». Le prime parole del romanzo di Marguerite Duras, sono anche quelle del film di Emmanuel Finkiel. Un’assenza si fa notare. Quella del verbo essere – ricorre una sola volta in quattro frasi. È così che Duras suggerisce, formalmente, l’assenza del marito. Siamo vicini e lontani dalla Disparition di Georges Perec, quel romanzo impossibile, scritto tutto senza «e», facendo a meno di questa lettera così inaggirabile, impresa che dà la dimensione di che cos’è vivere «sans eux», senza di «loro» (i genitori morti ad Awschwitz).

Anche Duras trova nel formalismo un modo per rappresentare l’irrappresentabile. Il marito non è morto. Potrebbe tornare da un momento all’altro. Semplicemente non c’è. È, ma non c’è. Il dolore è tutto là. Esercizi di stile, tipici delle esperienze letterarie di quegli anni. Ora, Finkiel non si limita a trasportarli nel suo film tali e quali. È vero che il testo di Duras è (abbondantemente) citato. Ma l’operazione consiste soprattutto nel trovare una traduzione cinematografica di queste forme letterarie. Il racconto è, stando alla Duras, un testo ritrovato a distanza di anni. Testo dal quale l’autrice prende subito le distanze. Tanto che nel romanzo compare prima un «io» che poi diventa un «lei».

ECCO che Finkiel raddoppia la propria eroina – nell’appartamento vediamo comparire due Duras, una che vive, l’altra che osserva la prima, non riuscendo a riconciliarsi con essa. Curiosamente, quella che osserva non è invecchiata rispetto alla Duras che vive. Come se Finkiel non credesse molto alla storia del diario scritto nel ’44 e ritrovato nel ’85. E vedesse in questo sdoppiamento solo un’esperienza metafisica. O forse il segno d’una coscienza infelice. Marguerite è lacerata da tre uomini. Il primo è il marito, che è stato arrestato perché progettava un attentato contro l’occupante.

Il secondo è l’amico, compagno d’armi del marito, che però l’ama. Il terzo infine è un ispettore della polizia francese, collaboratore, che ha fatto arrestare il marito e che fa la corte a Marguerite, forse perché ne è invaghito, forse perché vuole farla parlare, probabilmente entrambe le cose. Tre amori diversamente impossibili, ma che si incastrano per forza di cose l’uno con l’altro. Non diciamo di più per non rovinare il piacere della visione, che è soprattutto quello del gioco al gatto con il topo tra l’intellettuale Marguerite e l’ispettore Rabier, al quale Benoît Mangimel presta il suo fisico al tempo stesso infantile e affaticato.

IL FILM FRANCESE sull’occupazione è quasi un genere. Sorta d’ibrido tra film storico e melò, offre molto raramente più di una visione retrò, consolatoria e molle del passato. La Douleur non fa eccezione. È vero che Finkiel non rinuncia totalmente all’affresco e alle solite immagini di Parigi vestita di bruno. Ma gli va dato atto di aver cercato un modo di restare fedele all’ultra-soggettività del romanzo, che di quelle giornate non cerca minimamente d’offrire una descrizione storica e men che meno cronologica.

Tutto il campo visivo di Duras è ridotto dal sentimento del dolore e la sua azione è portata dalla sola motivazione di ritrovare il marito. Ecco che Finkiel inventa un film storico tutto in lunga focale, dove l’assenza di profondità di campo fa risaltare i personaggi, mentre sfoca e rende sbiadito il contesto in cui si muovono. L’uso ripetuto dei primi o primissimi piani alla lunga affatica, ma ha il vantaggio di mettere in risalto in valore la bravura degli attori. Tra i quali va ricordato accanto a Mélanie Thierry e al già citato Magimel, c’è il bravo Benjamin Biolay (in Francia noto soprattutto come cantante e da qualche anno presente sul grande schermo), che in un ruolo non facile è a suo agio come un attore più che consumato.