Le questioni sollevate dalle iniziative pubbliche riguardanti il Giorno del Ricordo, in quanto ricorrenza del calendario civile nazionale, vanno al di là del merito storico (e storiografico) di ciò che ne costituisce l’oggetto, così come del fatto stesso che da subito esso sia divenuto il prevedibile terreno sul quale la destra populista e post-costituzionale ha costruito una sua specifica narrazione di merito. Poiché dal momento stesso in cui, negli anni ’90 le maggiori cariche dello Stato, da Ciampi a Violante, hanno iniziato a professare la necessità di dare corpo a memorie simmetriche e compatibili, entrando nel campo scivolosissimo di una non meglio precisata «condivisione», che è la declinazione laica della precettistica neofascista sulla «pacificazione» (e parificazione politica), di fatto i giochi erano già stati risolti una volta per sempre.

OGNI DEMOCRAZIA contemporanea si fonda su «una gerarchia retrospettiva della memoria, cioè su scelte che definiscono la sua identità» (Sergio Luzzatto). In una tale dialettica, le liturgie pubbliche hanno un preciso significato, indicando che cosa sia compatibile con la fisionomia repubblicana e costituzionale e cosa, invece, pur esistendo non ne costituisca parte. Non almeno a pieno titolo, non essendone legittimata nel medesimo modo. Altro discorso è invece la riflessione storica, che non a caso si era già soffermata sui drammatici fatti del confine orientale comprendendo l’insieme degli eventi dentro un arco di tempo che va dallo sfaldamento degli Imperi centrali fino all’eresia titoista.

Su quanto la selettività delle memorie repubblicane possa essere in sé discutibile, non c’è bisogno di soffermarsi più di tanto. Mentre il fuoco della riflessione deve collocarsi all’interno di quel complesso e tortuoso processo culturale che a cavallo tra due decenni, all’atto del declino della cosiddetta «Prima repubblica», ha portato con sé la crisi dell’antifascismo così come lo sfaldamento di ciò che residuava dell’arco costituzionale, ovvero dell’accordo sui fondamenti istituzionali della reciprocità civile. Ad un tale mutamento, infatti, si è accompagnato il ritorno di ciò che era stato invece rimosso dallo spazio pubblico: sia del fascismo, progressivamente rilegittimato come parte di un più generale discorso sul «carattere nazionale», segmento discutibile ma non più politicamente inaccettabile della storia italiana, sia di ciò che una parte della pubblicistica continua a identificare come vero punto di non ritorno, l’8 settembre del 1943, quando si verificò la «morte della patria».

A fare da battistrada a questa ricostruzione del passato sono stati autori e intellettuali non di estrazione neofascista bensì di solido ancoraggio liberale. E non a caso la parola di riferimento, poi recuperata dal medesimo dibattito politico, è stata per l’appunto «patria». Da una repubblica fondata sulla matrice sociale, e pertanto conflittualista, della sua Costituzione, si è quindi transitati ad un discorso istituzionale fondato su un fittizio consensualismo dettato da una sorta di par condicio delle memorie, in un rapporto di equivalenze acritiche. Il datario laico, non solo italiano ma anche europeo, è oggi fondato su una vera e propria simmetria antitotalitaria, che raccoglie e unisce sentimentalmente, in un unico contenitore, vinti e vittime, sconfitti ed esiliati, prescindendo tuttavia da qualsiasi riferimento alle responsabilità politiche nei singoli drammi.

Ad un tale costrutto ideologico si accompagna, riproducendosi da sé, la dissimmetria delle memorie nazionali, invece estremamente selettive. Nel nostro caso, l’oblio sulla fascistizzazione delle terre orientali è fatto a tutt’oggi comune. In Italia così come in una parte dell’Europa, il fulcro della mistificazione è tuttavia costituito dal recupero di un veteronazionalismo, variamente declinato ma basato sul ritorno di antichi motivi che trovano nell’etnicismo razzistico la loro matrice più forte.

LA VICENDA DELLA MEMORIA degli infoibamenti (non solo di italiani) e dell’esilio degli istriano-dalmati diventa quindi il paradossale suggello di questo cambio di passo collettivo. Poiché dal costituire, nella sua concreta origine, il racconto di una traiettoria collettiva posta all’indice della consapevolezza nazionale postbellica, in quanto riscontro e denuncia delle responsabilità italiane nella catastrofe della guerra mondiale, è invece divenuta per una parte dello schieramento politico il trampolino di lancio di un discorso pubblico fondato sulla rivendicazione del proprio diritto all’esercizio della rivalsa. L’uso spregiudicato di quel passato, trasformato in una specie di laboratorio del radicalismo di destra, prescinde dal dato storico in quanto tale per ripresentarsi, ancora una volta, come pura mitografia. In un tale modo di fare, le stesse vicende umane che hanno concretamente accompagnato quegli eventi, si perdono in una sorta di sfondo senza tempo, dove tutto si fa intercambiabile e quindi manipolabile.

IL BERLUSCONISMO, velocemente archiviato negli ultimi anni, ha costituito il contenitore di queste spinte, facendole maturare all’interno di un brodo di coltura dove l’anticomunismo in assenza di comunisti è stato l’ingrediente più importante per cementare una coalizione di consensi che ha condizionato l’evoluzione della politica negli ultimi tre decenni.

Il paradigma dell’antitotalitarismo parla di «crimini del comunismo» poiché denuncia il comunismo storico come esclusiva impresa criminale. La medesima cosa fa del nazionalsocialismo. Ma non del fascismo, al quale invece sembra accordare una sorta di diritto d’appello, sia pure in un ruolo residuale. Ciò che allora torna, nei rigurgiti di una destra non solo post-costituzionale ma parassitariamente antidemocratica, è non solo la capacità di piegare a proprio favore le aporie e la contraddittorietà di ogni retorica pubblica del «superamento delle divisioni» ma anche, e soprattutto, la pericolosa rilettura della storia in una chiave puramente etnicista, facendo aderire la nozione di «patria» con quella di comunità nazionalista.