L’Istat ha solo certificato ciò che molti si aspettavano. Dopo un primo trimestre 2014 con crescita del Pil negativa (-0,1%), abbiamo un secondo trimestre con crescita persino più negativa (-0,2%) rispetto al trimestre precedente, con un -0,3% cumulato ed un identico -0,3% rispetto all’anno precedente.

L’Istat annuncia che ciò riguarda tutti i settori, che la domanda interna ristagna e pure il contributo della componente estera è negativo. Si certifica così che siamo in recessione tecnica. Ciò pone la crescita del reddito attesa per il 2014 allo 0%.

Il numero 0% ci sta accompagnando in media dal 2000. Siamo l’economia dello 0%. È divenuto il nostro carattere distintivo, nell’Eurozona, in Europa, tra le economie sviluppate. Il nostro biglietto da visita all’estero. Retaggio di quanto non fatto e fatto male negli anni ’90, e non fatto e fatto persino peggio negli anni dell’euro.

Esso si accompagna a un altro 0%, quello della crescita della produttività, che risale ormai a venti anni fa, e che si è portato dietro un altro carattere distintivo, quello dei salari (reali) a crescita 0%. Il Def2014 prevedeva per il 2014 una crescita dell’1% della produttività, e analogo del costo del lavoro (retribuzioni lorde), per lasciare quasi inalterato il livello del costo del lavoro per unità di prodotto (Clup). Ma così non sembra andare, le due crescite tendono a zero. Non è chiaro quale dei due fattori sia la causa e quale sia l’effetto. Se i salari ri-stagnano, mancano stimoli alla crescita della produttività, la competitività langue perché mancano le innovazioni che quella crescita dei salari indurrebbe. Ma ancor più langue la domanda interna compressa dai redditi delle famiglie che perdono potere d’acquisto e da avanzi primari del bilancio pubblico che anno dopo anno, dal ’90, sottraggono risorse e domanda all’economia reale.

E se la produttività non cresce, la torta pro-capite media non può aumentare e anche le politiche redistributive hanno poco spazio per trasferire sui redditi da lavoro una crescita della produttività che non esiste. Prevalgono le ragioni del più forte, per cui le fette della torta cambiano dimensione, si riduce quella del lavoro, si allarga quella dei profitti e soprattutto della rendita. Così si procede da venti anni. E l’economia reale ne soffre, perché il progressivo cambiamento delle quote distributive dal lavoro a favore del capitale produttivo e finanziario frena la crescita, in Italia come altrove nelle economie sviluppate.

La Legge di stabilità del dicembre 2013 (Letta-Saccomanni) prevedeva per il 2014 un +1,1% di crescita del Pil, quando Fmi, Ocse, Ce prevedevano un più cauto 0,8%. Da allora è stato un progressivo aggiustamento al ribasso nelle previsioni. Mentre il Def dell’aprile 2014 (Renzi-Padoan) abbassava le stime al comunque ottimistico +0,8%, le stesse istituzioni portavano le loro previsioni al +0,6%. Ma all’inizio dell’estate queste dimezzavano la cifra, +0,3% come valore più favorevole tra gli esiti possibili. In Italia, Istat e Banca d’Italia han seguito le previsioni internazionali piuttosto che quelle governative, tanto che son giunte a proporre una “forchetta” che vede un minimo di crescita, poco sopra lo 0,2%, come esito più favorevole ed una crescita negativa in quello sfavorevole. All’orizzonte c’è comunque lo 0%.

Per il 2014, le previsioni errate del governo sul Pil fanno saltare le previsioni sui due rapporti deficit su Pil e debito su Pil, rispettivamente 2,6% e 134,9%. Il primo rischia di oltrepassare il fatidico 3%, il secondo di avvicinarsi al 140%. Da qui nasce la possibile ma negata manovra correttiva nell’ordine di 1,6 miliardi di euro per ogni 0,1 punti percentuali in meno di crescita del Pil, una manovra che, se fatta, rischierebbe di peggiorare ancor di più lo stato dell’economia reale. Sottrarre in ragione della fondata previsione di crescita 0% altri 10 miliardi di euro alla domanda pubblica implica chiudere l’anno con segno meno, preparando un inizio 2015 alla depressione.

Se poi consideriamo che la Commissione Europea aveva certificato che con il Def di aprile 2014 il percorso verso il raggiungimento dell’obiettivo a medio termine del bilancio strutturale in pareggio non sarebbe stato assicurato per il 2015 anche a causa di un eccesso del bilancio strutturale per 0,5 punti percentuali nel 2014, a settembre ci verrà chiesto formalmente di intervenire subito per conseguire l’obiettivo, con ulteriori tagli nel bilancio pubblico nell’ordine di almeno 5 miliardi di euro.

E ancora non abbiamo considerato che la richiesta del Governo di rinviare al 2016 il pareggio di bilancio strutturale non è stata accolta dalla Commissione Europea dopo lo svolgimento del Consiglio Europeo di fine giugno, per cui la Legge di Stabilità 2015 potrà essere segnata non solo da una manovra correttiva, ma anche dall’imperativo del raggiungimento dell’obbiettivo a medio termine con interventi addizionali già in corso d’anno. Ulteriori miliardi da reperire, di ardua quantificazione ora in mancanza di previsioni di crescita per il 2015 e 2016 – immaginiamo ottimistiche come di consueto – che il Governo formulerà dopo l’estate con la Nota di aggiornamento al Def2014.

Il governo Renzi sembra affrontare tutto ciò con molta, troppa, disinvoltura. Prevalgono le competenze comunicative e ultime quelle metereologiche sulle competenze economiche e sociali. Siam ritornati dal governo volitivo del fare a quello volitivo del dire, dal “cambiare verso” ad un “verso” che quotidianamente si ripete e che rischia di divenire afono molto presto. Ma neppure mancano le dissonanze. Evidenti quelle sulla spending review, che coinvolgono non solo il responsabile Cottarelli che rischia il dimissionamento, ma il Ministero dell’Economia e delle Finanze, come il caso di Quota 96 ha limpidamente mostrato. A settembre il linguaggio di marketing-mediatico di Renzi dovrà confrontarsi con il linguaggio economico-ragionieristico di Padoan. Che prevalga l’uno o l’altro o si raggiunga un equilibrio temporaneo tra i due poco forse cambia per l’economia italiana. Il rischio è che la politica economica rimanga contrassegnata da un’insostenibile leggerezza. Fino a divenire un’insostenibile vacuità.