Era il 1949 quando Kurt Vonnegut vendette il suo primo racconto alla rivista «Collier’s» per 750 dollari, l’equivalente di un mese e mezzo di stipendio come responsabile delle pubbliche relazioni alla General Electric, e questo bastò a renderlo sicuro che presto avrebbe potuto lasciare quel «dannato lavoro da incubo». Così fu, infatti. Studiando i meccanismi narrativi delle storie che uscivano sui settimanali più in voga e affidandosi ai preziosi consigli dell’editor di «Collier’s» Knox Burger, negli anni Cinquanta Vonnegut continuò a scrivere racconti a un ritmo sconcertante, inviandoli a ogni tipo di rivista disposta a pubblicarli e riuscendo così a mantenere la sua numerosa famiglia. Ma il suo apprendistato era solo agli inizi, come ricorda in Destini peggiori della morte: «Quando le riviste in carta patinata furono mandate in rovina dalla TV mi occupai di pubblicità industriale e poi vendetti automobili, e inventai un nuovo gioco da tavolo, e insegnai in una scuola privata per ragazzi ricchi incasinati, e così via»; con quell’amalgama tipicamente americano di intraprendenza, ingegno, perseveranza e faccia tosta, a un certo punto riuscì persino a spacciarsi per scultore, ottenendo l’appalto da un migliaio di dollari per la realizzazione di un elemento decorativo da esporre nella lobby di un motel.

Il successo arrivò nel ’69
«Che quel genere di lavori danneggi l’anima dello scrittore è pura invenzione», affermò poi in una intervista; infatti, tutte queste esperienze, rielaborate da un’immaginazione infaticabile e filtrate attraverso il suo umorismo particolarmente affilato, confluirono nei racconti e nei suoi primi romanzi, che negli anni Sessanta venivano letti soprattutto dai giovani presso i quali Vonnegut acquisì lo statuto di idolo della controcultura.
Il grande successo, di pubblico e di critica, arrivò solo nel 1969 con Mattatoio n. 5, che lo incoronò scrittore tra i più originali e innovativi del secondo Novecento; allora, non più condizionato dal bisogno economico, fu libero di abbandonare definitivamente le short stories per dedicarsi ai romanzi.
Il massiccio e elegante volume edito da Bompiani – Kurt Vonnegut, Tutti i racconti (traduzione di Vincenzo Mantovani, a cura di Jerome Klinkowitz e Dan Wakefield, introduzione di Dave Eggers, pp. 1440, euro  38,00) ci permette per la prima volta di esplorare a fondo e interamente questo poderoso corpus di prose brevi – ben novantotto – scritte da Vonnegut nella prima parte della sua carriera. La scelta dei curatori di privilegiare un ordine tematico anziché cronologico permette di rintracciare le fondamenta della scrittura di Vonnegut nelle sue varie palestre formative: la più importante è la guerra, che lo scrittore americano visse in prima persona, e che gli ispirò i racconti più originali e politicamente sovversivi, nonché quelli più autobiografici, dandogli l’opportunità di abbozzare situazioni e personaggi che avrebbe poi sviluppato nei romanzi.

Come fare con le donne?

I racconti dedicati alla scienza e alle riflessioni sul futuro scaturiscono in parte dagli studi universitari di chimica e antropologia, oltre che dal periodo trascorso alla General Electric; rivisitando creativamente alcuni archetipi della letteratura di fantascienza, Vonnegut spinge il metodo scientifico ai limiti estremi della credibilità, unendo la critica socio-culturale e i timori per un irresponsabile sviluppo tecnologico al gusto ludico e provocatorio tipicamente postmoderno. Immagina, ad esempio, curiosi marchingegni, come un apparecchio in grado di dar voce ai pensieri inconfessabili di chi lo usa, un ricevitore di misteriosi segnali radio dallo spazio che fanno dimenticare ogni preoccupazione, o un «auricolare handicappante» che garantisce un futuro di pari opportunità in cui nessuno dovrà risultare più intelligente della media. Temi meno congeniali alla sua scrittura, come le donne – che afferma candidamente di non saper ritrarre non riuscendo a mettersi nei loro panni – e le storie d’amore – che cerca di limitare perché fagocitano l’attenzione del lettore obliterando ogni altro aspetto della trama – costituiscono stuzzicanti intermezzi narrativi, per quanto a volte rischino di apparire stucchevoli o eccessivamente moralistici.

Il corpo centrale del libro è costituito dai racconti raggruppati sotto le sezioni «Comportamento umano» e «Etica del lavoro contro fama e fortuna», che restituiscono uno spaccato lucido e fortemente ironico dell’America degli anni Cinquanta. Tutti i temi toccati investono polemicamente le preoccupazioni politiche e individuali della nazione durante la Guerra fredda: politici senza scrupoli mirano a utilizzare la scienza a scopi bellici, mentre in ambito domestico le innovazioni tecnologiche servono perlopiù a conquistare l’amore di una donna o come surrogato della vita sentimentale.

Ricchezza e fama si rivelano valori effimeri, mentre la cosiddetta «etica del lavoro» si rispecchia quasi esclusivamente nell’acquisizione e il mantenimento di un benessere economico e di una famiglia tradizionale, adombrando una visione del ruolo femminile che oggi probabilmente definiremmo sessista e datata, ma che rispecchia la società dell’epoca.

Scrive per i coetanei
Accanto agli installatori di portefinestre, alle giovani dattilografe e ai consulenti finanziari non mancano tipi «vonnegutiani» coinvolti in situazioni originali e strampalate: scienziati geniali atterriti dal potenziale distruttivo delle loro scoperte e braccati dal governo, gangster sentimentali che pretendono l’affetto dei figli dei loro tirapiedi, un marito tradito dalla moglie che si affeziona a minuscoli alieni fuoriusciti da un tagliacarte, e persino un razzo pieno di sperma lanciato verso la luna nell’ultimo racconto, scritto nel 1972 e intitolato «La grande scopata spaziale».

Il lettore troverà in queste storie tutti i marchi di fabbrica che hanno reso famosa la scrittura di Vonnegut: il radicalismo, l’ostinata indipendenza intellettuale, la satira graffiante e irriverente, l’autoironia e quella comicità che rasenta il black humor, l’onestà intellettuale, la fiducia nelle potenzialità di ogni essere umano.

Sin dagli inizi Vonnegut è determinato a «scrivere per i coetanei più che per i professori» e quindi privilegia uno stile colloquiale, composto da frasi essenziali e paragrafi brevi che ricalcano le inflessioni vernacolari e i ritmi del parlato. La voce intima e familiare dei narratori, così come la sincerità e il candore schierati al servizio di un’amara critica sociale, avvicinano la sua prosa alla «New Sincerity» di autori diversi per età e temperamento (ma spesso con studi scientifici ed esperienze giornalistiche alle spalle) come David Foster Wallace, William Vollmann, George Saunders, Ken Kalfus, Dave Eggers. Ma l’attualità di Vonnegut si misura anche dalla carica sovversiva delle proposte semiserie formulate nei racconti e nelle numerose interviste rilasciate nel corso degli anni, che oggi ci appaiono a dir poco profetiche: in questi tempi di analfabetismo funzionale e redditi di cittadinanza, richiedere «a tutti i disoccupati di presentare una tesina con l’analisi di un testo narrativo al momento del ritiro dell’assegno di assistenza» potrebbe essere una idea da mutuare.