La dedica del film dichiara: Un pugno serrato per tutti i compagni caduti. Liberare tutte le vittime dell’oppressione politica. Fred Hampton, solo 21 anni quando fu assassinato dall’Fbi il 4 dicembre del 1969, sarebbe d’accordo. Hampton, marxista-leninista, socialista rivoluzionario, figura di primissimo piano delle Pantere nere aveva creato la Rainbow Coalition, un’organizzazione mirata a eliminare il conflitto fra le gang e a federarle nella comune attività politica al di là dell’etnia e colore. Hampton è una figura cruciale dell’indipendentismo afroamericano – come Huey P. Newton e Cleaver Eldridge – la cui ombra si è estesa nel tempo grazie al lavoro del figlio Fred Jr. e della compagna Deborah Johnson il cui nome oggi è Akua Njeri. Sono loro che figurano come consulenti storici del potente film di Shaka King, facendosi garanti non di una presunta verità ufficiale, che non è in discussione, ma del riportare la storia di Hampton nell’alveo della comunità afroamericana.

NEL RAPPORTO fra William O’Neill (un sofferto e commovente Lakeith Stanfield) e Fred Hampton (il sontuoso Daniel Kaluuya), Shaka King traccia, in maniera molto precisa, un rapporto quasi schizofrenico del delatore e infiltrato lacerato fra alienazione e ammirazione nei confronti dei tentativi di emancipazione del rivoluzionario. O’Neill, che nell’incipit tenta di spacciarsi per un agente del Fbi per rubare un’auto da una banda di piccoli banditi di strada, travestendosi come il classico prosseneta afroamericano, segnala subito un cortocircuito. Da un lato l’incapacità di sfuggire alle convenzioni delle rappresentazioni che i bianchi hanno affibbiato agli afroamericani e dall’altro individuare implacabilmente il potere bianco come chiave dell’emancipazione individuale. Ossia di fatto un’estensione dello schiavismo. Alla domanda di Roy Mitchell (un disturbante Jesse Plemons) del perché rischiare di essere ammazzato proteggendosi solo con un distintivo falso, O’Neill risponde che una pistola è solo una pistola.

UN DISTINTIVO ha alle spalle un intero esercito. In questa oscillazione fra l’adorazione del simbolo (il distintivo) – il cui potere O’Neill evidentemente attribuisce al solo potere significante dei bianchi – e l’illusione di emanciparsi come individuo tradendo la sua gente, Shaka King, oltre che fare luce su una figura tragica come O’Neill, sembra volere elevarlo a sintomo e segno di una condizione schizofrenica e alienata dalla quale gli afroamericani, quelli che per esempio hanno votato Trump (o gente come Ben Carson che ha osato definire gli schiavi come migranti alla ricerca di un sogno…) non si sono ancora affrancati. Il film di Shaka King è potentissimo. Rispetto a Spike, è meno apertamente predicatorio, recuperando invece l’energia dei primissimi film dei fratelli Hughes o di John Singleton. King traccia l’arco del racconto in quella che potrebbe essere definita una lunga notte dell’anima. Osservando come Shaka King filma le Pantere creare dal basso dei loro quartieri infrastrutture scolastiche e sociali, perennemente nel mirino degli uomini di Hoover (interpretato come un autentico mostro da un sublime Martin Sheen, un rovescio del presidente liberal Josiah Bartlet di West Wing), si comprende che il suo film non è tanto la ricostruzione credibile e precisa di un passato da celebrare, quanto la proiezione in avanti di un futuro tutto da costruire.

ED È IN QUESTA tensione fra l’oggi e il domani che la storia di Fred Hampton trova un peso specifico del tutto nuovo. King offre ai corpi dei suoi protagonisti tutta la dignità negata loro dalla repressione bianca. Deborah (la commovente Dominique Fishback), donna innamorata in grado di decostruire la retorica di Hampton, eppure seguirlo intuendo perfettamente la distanza fra l’iperbole e la necessità dell’azione immediata, si oppone al luciferino Mitchell che accusa O’Neill di essere sin troppo convincente nel suo ruolo di Pantera. Shaka King costruisce un luogo narrazione inquietante nel quale il simbolo s’intreccia con la parola dando vita così a un teatro nel quale la posta in gioco è la vita stessa; o meglio le sue forme e le sue immagini. Consapevole che la comunità afroamericana necessita di immagini nelle quali proiettarsi, King esplora i margini delle parole di Hampton come correlato oggettivo per evocare dei mondi possibili; quei mondi che Hoover è determinato a stroncare alla radice. Prodotto da Ryan Coogler (Black Panther, Creed – Nato per combattere), Judas and the Black Messiah è un film davvero potente e politicamente necessario. King ha inserito nel film frammenti di Black Panthers di Agnès Varda e immagini di Protest: Black American Revolution 2 (Part 2), What We Have e The Murder of Fred Hampton tratti dai Chicago Film Archives. Eccellente anche il versante musicale nel quale spicca Fleurette Africaine di Duke Ellington (con Charles Mingus e Max Roach), Inflated Ear di Rahsaan Roland Kirk e Keep On Pushing di Curtis Mayfield. Candidato a 6 Premi Oscar, disponibile sulle principali piattaforme: Time Warner, Amazon Prime Video, Apple Tv+, Youtube, Google Play, TimVision, Rakuten.