È passato solo qualche mese – era un’estate tumida, che stentava ad avvampare – dal visibilio liquido, ipnotico di Music From The Last Commander dei Julie’s Haircut, che interpretavano le immagini di Von Sternberg, confermando una predisposizione alla visione, alla visionarietà, che è connaturale di quella che è senz’altro una delle maggiori band in circolazione, in quell’ambito rock dai confini labili, trascolorante in continuazione tra kraut, psichedelia, shoegaze, impuntito con tratti di jazz, new wave, post punk. È quel contesto che ad esempio vede coesistere gli Oscillation, i The Early Years, Sula Bassana (il progetto più spaziale di David Schmidt), con i Papir, gli Gnoomes, i Goat, di cui si sentono le consonanze in quest’ultimo In The Silence Electric, ulteriore, ebbro rituale (a fronte dello sfrenamento dei Goat) che si svolge tra terra e cielo, a piedi nudi sulla scorza friabile della terra, officiando i lampi erotici che traspaiono dagli intrichi notturni, i fuochi, i mille occhi ossessi, celestiali.

VINILE stampato in scala di grigi dall’etichetta inglese Rocket Recording – famosa oltre che per la qualità del suo catalogo, anche per la varietà cromatica e le fantasie dei suoi dischi, in pieno, feticistico rispolvero dei supporti e degli apparecchi per l’ascolto; non più lo sgorbio, la raucedine di un motivetto in mp3 che gracchia in auricolari senza bassi, o casse bluetooth da 3 watt, ma il suono puro, o qualcosa come l’illusione di un suono puro, che esce in quantità (e qualità) da tweeter prestanti e s’impossessa della stanza, dello spazio: In The Silence Electric invoca amplificatori esoterici, alchimie di transistor all’altezza della trama serica, ancestrale dei propri arrangiamenti; meglio se congegni a valvole, ad alambicchi in cui i suoni sono versati, mischiati come pozioni. Da lì la musica prende forma, sostanza: quasi si solidifica in cose iridescenti, come il muro d’aurora gialla, gommosa, che una volta m’apparve davanti mentre ascoltavo (o vedevo) If I Was Here To Change Your Mind dei Black Hearted Brother.

È QUI, nelle 300B del mio accrocco a valvole, riservato ai dischi lisergici, che, mentre In The Silence Electric vorticava sul piatto, ho visto sciogliersi e fondersi il sax e le tastiere andanti con le percussioni in sospensione. In effetti svettano i tom, i timpani, la gran cassa sul rullante, a scandire un ritmo di attesa, di presagio, come nel brano d’apertura, Anticipation Of The Night o in Lord Help Me Find The Way, finchè non arriva l’evento presagito che è una specie di soffusa tribalità, un sabba benefico e allo stesso tempo venefico (frutto di permutazioni di liquidi, secrezioni), e allora venereo, tra litanie di chitarre e giaculatorie in sax (Emerald Kiss).

UNA DANZA sciamanica che s’inquieta un po’ nel riff flautato di Untill The Light Go Out, forse troppo cantata se si pensa a certe suite tutte strumentali in cui i Julie’s di solito raggiungono vette stupefacenti, come ad esempio in Asharam Equinox uscito esattamente 6 anni fa. Ma ammetto che questo del canto è un cavillo, una scusa che legittimi la critica, per cercare qualcosa che non vada in questo disco in realtà molto compatto, coerente, evocativo come sempre quando si tratta dei Julie’s Haircut.
Che poi arriva il santo kraut (in Sorcerer) a concitare il rimto in orgia, una copula sabbatica che si disarticola intorno al fuoco rullante, incalzante dopo che c’era stato l’andante dei timpani e dei tom. Alla fine, di gran cassa e d’arabeschi in sax, in mog, s’intesse l’eterna vicenda della cosmic music (Darlings of the sun), fino a For The Seven Lakes che lascia intravedere ulteriori spiragli, strappi nella notte, languori di fiati sovrapposti a tastiere che fremono, vibrano prima di lasciare spazio all’ultimo Gong.