Il suono come spazio in movimento, profondo, tridimensionale, cangiante: nessuno ha capito veramente se l’ensemble multietnico C’mon Tigre suonerà sulle immagini del Maestro Gianluigi Toccafondo, o se sarà il pittore a dipingere sulla esile tela che nasconde l’identità multipla di C’mon Tigre, il combo italo-franco-nipponico di cui si conosce solo l’identità degli svariati collaboratori.

Le prime note partono dalle corde della chitarra, dalle pelli della batteria, arrivano al cervello, e vanno a illuminare le immagini che si dipanano sulla tela. Ventiquattro fotogrammi per secondo,1440 fotogrammi al minuto, decine di migliaia di pennellate e di riff di chitarra, di schizzi di colore e di beat sintetici, di umori analogici e digitali. Siamo tutti seduti in silenzio, tratteniamo il respiro, manco fossimo in chiesa.

Il palco è coperto da un telo sottile di tulle, dietro si muovono ombre. Una lametta squarcia la tela da cui comincia a sgorgare musica. Bagliori improvvisi, tagli di luce, schizzi di vernice, graffi, righe, code di animali, maiali allucinanti con zampette da fenicotteri, donne volteggianti, leoni che si trasformano in gazzelle, code di vecchi frac e scarpette da ballo, coppie di innamorati che danzano allegri mentre i loro corpi si gonfiano, ingigantiscono, si allungano in una smorfia inquietante e scompaiono nel buio. Quando la musica finisce, che sia funk sporco o dub acquatico è gelo. Quando ricomincia, si fa spazio nel silenzio, precisa, affilata, irresistibile. E, ancora, corpi che diventano ombre, pistole che sputano fuoco, kiss kiss bang bang, criminali che fanno paura solo a loro stessi si muovono al rallentatore, inseguendosi in un nascondino che ricomincia sempre dallo stesso punto. È una danza lenta, scandita dalla batteria e dagli ottoni caricati a pallettoni (sax baritono, clarinetto basso, tromba e trombone), dal vibrafono in eruzione e dalla Gibson a serramanico.

Il Pinocchio in Lsd di Toccafondo odia la sua natura di burattino e cerca tutto il tempo di trasformarsi. Come dargli torto? Ma l’unica cosa che gli riesce è di farsi spuntare gambette da pollastro e inutili ali che non gli faranno mai spiccare il volo. Invece la musica esplode, in tutta la sua potenza: la batteria scoppia, divampa, la chitarra si fa spazio nella notte, mentre il cantante samurai intona il suo lamento antico appoggiandosi ai tasti di un organetto Farfisa.
Il sole sorge, e il ritmo si innalza. È una partita che si gioca nella sabbia, a piedi scalzi: tutti urlano, tutti ballano, tutti battono le mani. Ma, a sorpresa, a metà dell’incontro, a qualcuno viene un’idea geniale: calzare belle scarpe lucide da businessman.

Un’idea assurda, perché lo sanno tutti che a calciare coi mocassini finisce male. È un massacro: giraffe imbizzarrite, cammelli in fuga e centinaia di grossi e lenti elefanti tuonano con proboscidi-tromba. Non vince chi fa goal, ma chi sopravvive. È lo spettacolo più bello del mondo, del resto…

Toccafondo prende sorrisi, ciuffi di capelli, piccole figurine che passano in strada e le fa danzare ancora, sul ritmo sintetico di batteria elettronica e tromba. Disegna scenografie dell’anima, luoghi inesistenti, città fantasma, universi in bilico, sulla poesia di Pier Paolo Pasolini: «Essere morti o essere vivi è la stessa cosa».
Alla fine è applauso scrosciante. Siamo a Chicago o Marsiglia? A Marrakech o Mumbai? Usciamo lenti e sfuggenti. Forse fuori è solo Bologna.