Mosul è stata liberata. Ad un prezzo altissimo: il 40% delle forze governative è stato ucciso, un numero imprecisato di civili è cadavere sotto le macerie, 920mila persone sono fuggite dal 17 ottobre quando la battaglia è cominciata.

La seconda città irachena è distrutta: non c’è palazzo che non abbia subito danni ingenti. La vittoria ha il sapore amarissimo della devastazione, fisica e psicologica: le organizzazioni umanitarie parlano di catastrofe umanitaria, di una popolazione ridotta alla fame e senza alcuna speranza negli occhi.

Tanti sono ancora bloccati in città vecchia con pochissima acqua a disposizione. Con lentezza vengono portati via dall’esercito che controlla tutti, anche donne e anziani, per timore che tra loro si nascondano miliziani dell’Isis.

«La maggior parte dei civili ha perso tutto – spiega Lise Grande, coordinatrice umanitaria dell’Onu in Iraq – Hanno bisogno di un tetto, di cibo, assistenza sanitaria. Il livello del trauma a cui assistiamo è tra i più alti mai visti. Queste persone hanno vissuto un’esperienza inimmaginabile».

Domenica il premier al-Abadi ha raggiunto Mosul per annunciarne la liberazione celebrando «l’eroismo» dell’esercito, sebbene ci siano ancora sporadici combattimenti in corso con le ultime decine di islamisti ancora presenti. La bandiera irachena sventola sul fiume Tigri, mentre i soldati festeggiano nelle strade e i civili gioiscono nelle piazze di Baghdad.

L’Isis è fuggito: secondo fonti del governatorato di Ninive, il quartier generale amministrativo – ultimo scampolo di statualità dello Stato Islamico in Iraq – è stato trasferito a Tal Afar, cittadina tra Mosul e il confine con la Siria circondata a nord e ovest dalle milizie sciite irachene legate all’Iran.

Daesh non si è eclissato. Controlla ancora territorio in tre aree: a Hawija, sudest di Mosul; intorno Tal Afar; e ad al-Qaim, confine ovest con la Siria. E sa muoversi con facilità nelle crepe di uno Stato semi-fallito, con cellule che continuano a farsi esplodere nella capitale come nel resto del paese.

Adesso Mosul va ricostruita, nelle infrastrutture e nel tessuto sociale. L’Onu stima un costo di oltre un miliardo di dollari per rimettere in piedi scuole, case, ospedali, reti idriche e elettriche, mentre il Dipartimento della Difesa Usa ha già chiesto al Congresso 1,2 miliardi a sostegno delle truppe di Baghdad per il 2018.

E poi c’è il piano presentato dieci giorni fa dall’ufficio del primo ministro: in dieci anni saranno investiti 100 miliardi per ricostruire tutte le comunità occupate dall’Isis e liberate, denaro che arriverà in prestito per lo più dalla Banca mondiale, un business astronomico che attira l’attenzione di più di un paese.

Paesi che vogliono mettere le mani sul giro d’affari della ricostruzione ma anche dettare il futuro politico dell’Iraq: c’è chi, come gli Usa, punta ad una divisione amministrativo-confessionale del paese; chi (la Turchia) lavora alla creazione di una buffer zone a nord in chiave anti-sciita e anti-Pkk; e chi (l’Iran) anela al mantenimento dell’unità nazionale, utile a rafforzare il corridoio sciita da Teheran al Libano.

In tale contesto si inseriscono le divisioni interne all’Iraq, un vaso di pandora scoperchiato dall’invasione Usa del 2003. Le minoranze chiedono protezione internazionale mentre i sunniti, che non si fidano di un governo sciita che ad oggi non ha fatto passi avanti nella loro integrazione politica e economica ribollono. Senza una piattaforma politica, una nuova crisi è dietro l’angolo.