Ce n’è per tutti è un titolo, fra gli ultimi di Nanni Balestrini, che vale come il suo più fedele autoritratto «pratico». Artista renitente alle poetiche quanto uomo su di sé riservato, nei rendiconti infittitisi negli ultimi anni (se non altro per l’incombenza uggiosa degli anniversari; per non parlare degli epicedi, a lui tanto discari), Balestrini preferiva scrivere una nuova opera, quando si trovava nell’incombenza di commentarne un’altra, propria o altrui.

Ce n’è per tutti s’intitolano i collage del 2017 in coda al terzo volume dei suoi Omnia poetici (Caosmogonia e altro, uscito l’anno scorso da DeriveApprodi dopo i precedenti Come si agisce e altri procedimenti del 2015 e Le avventure della signorina Richmond e Blackout del 2016); e lo stesso titolo ha dato Nanni alla sua ultima mostra, a Bologna lo scorso gennaio.

Vengono in mente i personaggi pluriprospettivisti della narrativa modernista, come lo Jakob Abs delle Congetture di Uwe Johnson (uno dei libri «eroici» della nuova Germania, che segnarono la «sua» Feltrinelli nei primi Sessanta; di lì era originaria la sua famiglia materna, e dai protocolli del Gruppo 47 prese ispirazione per quelli del nostrano 63) o il Charles Foster Kane del Quarto potere di Orson Welles, o ancora i ritratti cubisti di Picasso e, forse meglio, quelli post-tali di Francis Bacon (da sue frasi icastiche, oltre che di John Cage e Jean-Luc Godard, aveva tratto le parole dei tre magnifici poemetti dell’ultima raccolta Caosmogonia, pubblicata nel 2010).

O magari soprattutto – considerando il sorriso sempre sulle sue labbra – il Figaro di Rossini (che in Beaumarchais, si ricorderà, è un eroe rivoluzionario): il «factotum» che è «pronto a far tutto» e «la notte e il giorno sempre d’intorno in giro sta».

L’individuo non è ineffabile per l’insondabile sua supposta interiorità (come nella tradizione umanistica e idealistica); viceversa è tale per come è tutto rivolto all’esterno – scuoiato ed eviscerato, come in una certa terribile poesia del maestro Sanguineti –, diffratto ed «esploso» in tutte le direzioni: in quella che Lacan definiva estimità.

Ricordo che quando avevo azzardato un parallelo fra il cut-up dai giornali, nei collage verbali che da molto presto sono stati il suo metodo di composizione preferito, e l’attrazione che per lo stesso materiale aveva avuto Andy Warhol, Nanni mi disse che di lui gli era sempre piaciuta una frase tra le più provocatorie ma anche, a suo modo, fra le più vere: «Guardate semplicemente la superficie delle mie opere. Lì sono io. Dietro non c’è nulla».

È ineffabile, l’individuo, perché non lo si può appunto vedere quale individuo. Perché è uno, nessuno e centomila. Sicché ciascuno si trovi nei pressi, di quell’esplosione centrifuga, si trova a essere investito da uno dei suoi aspetti, fra loro diversi e anche contraddittori.

Oggi dunque si dovrà ricordare anzitutto il poeta, che nell’adolescenza acerba sottopone i primi tentativi all’altro maestro Luciano Anceschi, capitatogli un certo anno scolastico dei primi Cinquanta, e poi non ha più smesso; ma anche l’artista visivo, maestro nel collage di immagini non meno che di parole; e poi il narratore «furioso» che, a partire da Vogliamo tutto del ’71, imprime alla sua opera una svolta «politica» tanto discussa quanto seminale; nonché appunto il militante, da Potere Operaio ad Autonomia, che dalle conseguenze del teorema del «7 aprile» di giusto quarant’anni fa si salva (come mitobiograficamente si legge in quello che è forse il suo capolavoro, Blackout del 1980) sciando a valle verso la Francia: dove resterà esule sino all’assoluzione, cinque anni dopo, in contumacia.

In questa peripezia c’è tutto Nanni: la souplesse di ogni suo gesto, la sprezzatura dandistica, la soavità con la quale pronunciava le frasi più sferzanti; scivolare fra luce e buio nella primavera frizzante, librarsi a valle sfruttando e negando il proprio stesso peso, slittare verso una béance tanto più dolce quanto più peritosa.

C’è infine un quinto Balestrini, a lungo il più considerato (dai più, per ridurre la portata degli altri). Parlo dell’organizzatore culturale, del redattore editoriale, dell’artefice instancabile di riviste ed eventi: «oggetti» che hanno modificato in profondità il paesaggio del secondo Novecento e dei primi due decenni del nuovo secolo.

È il Balestrini che ha contato in misura decisiva – posso testimoniare – nella formazione e nella crescita di almeno tre generazioni di giovani intellettuali.

Ma questo Balestrini «relazionale» non può essere considerato, avrebbe detto un filosofo d’antan, «allotrio». Perché è quello che tiene insieme tutti gli altri.

Nell’ultimo suo libro, il poemetto dedicato al ’68 e intitolato proprio L’esplosione (pubblicato lo scorso febbraio dalle Edizioni del «verri»), si legge che «non c’è un’immagine ci sono solo rapporti tra», perché è appunto la «relazione fisica / tra esseri sensibili e coscienti» la natura effettiva della nostra condizione umana.

In ogni situazione, politica o artistica (ove poi, viste in questo modo, tali sfere possano essere disgiunte), essenziale è vedere «non le cose ma quello che c’è tra le cose». Solo così gli individui possono uscire dal carcere di sé, lasciare Vuota la Gabbia dei ruoli e delle identità.

Per questo «ogni storia appartiene a tutti»; e per questo, quando più scura appare la tenebra in cui siamo gettati, «l’importante è sentire di esistere / poi all’improvviso arriva qualcosa / prima non c’è nulla poi all’improvviso».