Suona più come un imperativo che come un incoraggiamento al lettore, Feel free, il titolo della raccolta di saggi di Zadie Smith appena pubblicata da Sur nell’ottima traduzione di Martina Testa (pp. 360, euro 19,00). Per la scrittrice britannica, infatti, la libertà è soprattutto una forma di responsabilità, quasi un dovere: «Non si può combattere per la libertà se ci si è dimenticati come identificarla», riflette nell’introduzione; l’unico modo per imparare a riconoscerla, e quindi a difenderla, è attraverso un’attenta e costante partecipazione alla vita artistica, politica e culturale del proprio tempo.

Non a caso, dunque, nella prima sezione del libro troviamo un «diario della Brexit» (pubblicato originariamente sulla New York Review of Books), in cui Smith riflette in presa diretta sull’«enorme shock collettivo» generato dai risultati inaspettati del referendum britannico. Nonostante alcuni riferimenti possano già apparire inevitabilmente datati, non lo sono i «recinti», reali e metaforici, che l’autrice vede sorgere quotidianamente a Londra e che generano in lei una spiacevole «paranoia da progressista» – patologia assai frequente anche in Italia, e che si rivela speculare, e forse altrettanto perniciosa, della causa che l’ha generata: l’ossessione xenofoba e razzista propagandata dai sostenitori della Brexit e dai tweet sgrammaticati di Trump.

Feel Free propone un’ampia selezione dei testi raccolti nell’edizione originale, scritti tra il 2008 e il 2017, con l’aggiunta del discorso «Creatività e rifiuto», pronunciato dall’autrice il 2 luglio 2013 a Roma, in occasione del Festival delle Letterature. La scelta della forma saggio risponde a un bisogno di fare chiarezza nella mente «disordinata e caotica» della scrittrice, di esercitare una sorta di controllo sulla propria immaginazione.

Idee, visioni, ricordi
Come specifica il sottotitolo, tuttavia, più che veri e propri saggi il volume raccoglie «idee, visioni, ricordi» – pensieri in forma slegata, opinioni e sensazioni personali, riflessioni su temi di attualità, commenti su film e personaggi famosi: ogni soggetto diventa lo spunto per collegare questioni apparentemente distanti in un collage stimolante e originale, che trova la sua controparte nell’installazione artistica di Christian Marclay The Clock, un film di 24 ore composto da scene in cui compaiono orologi o viene nominato l’orario.

Con un pizzico di malizia, Zadie Smith accoppia Justin Bieber e Martin Buber, David Byrne e David Bowie, la scrittura e la danza, «ottimismo e disperazione», Mark Zuckerberg e le sculture greche e romane, Andy Wharol e Luca Signorelli, la pubblicità di una birra e la ricerca della felicità… Sta al lettore tracciare possibili costellazioni, incrociando e collegando i molteplici spunti derivati dai diversi saggi per formare aggregati di significato.

Attraverso una scrittura cangiante, che si adatta di volta in volta all’argomento trattato, Smith rivendica la libertà di cambiare fisionomia intellettuale (a quattordici anni la scrittrice ha modificato il proprio nome di battesimo da Sadie a Zadie), di cambiare idea (così si intitola la sua precedente raccolta di non-fiction) o di spostare a piacimento il proprio territorio di azione: negli ultimi anni la sua vita si è svolta tra Londra (dove è nata e cresciuta), New York (dove insegna scrittura creativa) e Roma (dove ha soggiornato tra il 2016 e il 2017). Proprio nel triangolo sghembo composto da queste città prende forma la sua peculiare voce «transatlantica», capace di restituire la specificità culturale di ognuno di questi luoghi senza mai scadere in uno sciatto provincialismo.

I personaggi più riusciti dei suoi romanzi sono figure multietniche, multiculturali, contraddizioni ambulanti in cerca di un equilibrio, perché mantenersi fedeli al titolo della raccolta implica, appunto, assumere identità composite, rinunciando a etichette limitanti: «Io sono molte cose insieme», ha affermato Zadie Smith, «una persona nera, ma anche una donna, una moglie e una madre, una britannica, un’europea – almeno per ora –, una londinese, un’abitante di New York, una scrittrice, una femminista, una giamaicana di seconda generazione, un membro della diaspora africana, una fan del Trono di spade…»

Mutevoli punti di vista
Grazie a questa identità fluida, l’io narrante di Feel Free è in grado di immaginarsi in situazioni e ruoli disparati: accanto all’attivista indignata per la chiusura di una biblioteca di quartiere e alla mamma progressista preoccupata per l’istruzione dei figli c’è l’artista flâneuse e un po’ annoiata del saggio «L’ombra delle idee», che passeggia per le piazze di Roma godendo della «libertà più totale», e tuttavia è attanagliata da «una sorta di nostalgia preventiva» che la spinge a confessare: «Io con la mia libertà ci ho fatto pochissimo, quasi nulla». Altre volte il punto di vista è quello della lettrice compulsiva, dell’artista sperimentale (nel brillante «Lezioni di danza per scrittori», ideale companion del suo ultimo romanzo, Swing Time), dell’appassionata cinefila, della studiosa di letteratura; a un certo punto la voce narrante diventa quella di Billie Holiday (nel saggio «”Crazy They Call Me”: Billie Holiday fotografata da Jerry Dantzic», definito «una sorta di ventriloquio»); o addirittura, in un suggestivo esperimento di «realismo traumatico», la scrittrice assume il punto di vista di un cadavere («Uomo vs. cadavere»).

Così, Smith ci ricorda che la letteratura rappresenta proprio «quello spazio ambiguo in cui le Identità impossibili diventano possibili». Nel testo più ambizioso della raccolta, «L’io che non sono io», l’autrice si sofferma sul ruolo dell’autobiografia nella narrativa d’invenzione, e lo fa partendo dallo scrittore americano che più di tutti, a partire dalla seconda metà del Novecento, ha contribuito a dissolvere i confini tra arte e vita: Philip Roth. Il protagonista di Lamento di Portnoy è il massimo esempio di quelle «identità impossibili» plasmate dalla letteratura, dato che all’uscita del romanzo nel 1969 «era impossibile essere Alexander Portnoy a Newark», così come sembrava altamente improbabile venire accolti nel canone americano scrivendo un romanzo del genere.

L’esempio Roth
Roth ha elargito a sé stesso e ai propri lettori un «dono di libertà», ribellandosi contemporaneamente all’altrettanto impossibile e costrittiva identità di «scrittore-trattino-ebreo-trattino-americano». Con Feel Free Zadie Smith dimostra di aver fatto tesoro di questo dono, liberando la propria scrittura da ogni normativismo e componendo un inno alla libertà di pensiero, ma anche al valore immaginifico della narrativa: nell’epoca della post-verità, solo la letteratura riesce a «sospende(re) il nostro grande e violento desiderio di essere nel giusto su ogni que stione», ad aprire uno spazio del pensiero in cui «possiamo essere più audaci, più coraggiosi, più capaci di tollerare le nostre stesse incertezze».