«Tanto la follia quanto la letteratura giocano con i segni, quei segni che si prendono gioco di noi». È con queste parole di Michel Foucault che Giancarlo Alfano e Carmelo Colangelo indicano, verso la fine della loro esauriente e nitida indagine, il terreno comune alle due discipline, che convocano a dialogo nel loro libro Il testo del desiderio Letteratura e psicoanalisi (Carocci, pp. 230, euro  19,00). L’ipotesi foucaultiana è duplice: sostiene anzitutto che i segni non obbediscono alle nostre intenzioni, non dicono ciò che vogliamo dire.
Siamo noi a lasciarci impregnare dai loro significati, sedurre dalla loro combinatoria cangiante. La psicoanalisi ha chiamato inconscio questo gioco di linguaggio e da subito ha posto le formazioni dell’inconscio, cioè i nostri sogni, lapsus, atti mancati, sotto l’egida delle regole che reggono l’autonoma creatività del gioco linguistico. In altri termini, ha fatto dell’inconscio una retorica, un mobile esercito di metafore, diceva Nietzsche. E non solo di metafore, naturalmente.

In seconda battuta, l’ipotesi di Foucault suggerisce che la follia e la letteratura siano qualcosa come giochi di secondo grado. Tanto nella follia quanto nella letteratura, saremmo di fronte a un insieme di meccanismi retorici che destrutturano o ristrutturano quella prima officina retorica in cui la nostra soggettività e la nostra esperienza hanno preso forma. Gioco che diventa sfida tragica nel caso della follia, e che si fa esperimento vertiginoso nel caso della letteratura. Non stupisce che alla prospettiva della psicoanalisi si siano ben presto affacciati sia i letterati che molti critici, indovinandovi una compagna di cammino preziosa per chi voglia illuminare il funzionamento di un testo poetico o narrativo. A questo proposito, Alfano e Colangelo procedono con giusta prudenza, consapevoli di come la psicoanalisi abbia spesso avvicinato i testi letterari pensandoli come una via per arrivare agli autori e ai segreti della loro psiche. Un certo personaggio, un certo intreccio avrebbe espresso in forma più o meno criptata i conflitti inconsci del poeta o del romanziere.

Lo stesso Freud si è spinto a un passo da questa tentazione, quando ha scritto di Leonardo e di Goethe, e non pochi suoi epigoni hanno imboccato con decisione questa strada, fra le prime la sua influente discepola francese Marie Bonaparte. Tutt’altra è la direzione in cui si sono mossi negli ultimi quarant’anni illustri critici letterari, su tutti Mario Lavagetto, Francesco Orlando, Jean Starobinski, citati a mo’ di stelle polari in questo risvolto della riflessione di Alfano e Colangelo.

La formula di Francesco Orlando, secondo cui la letteratura costituirebbe il luogo del ritorno non del rimosso, ma del represso, indica forse nel modo più chiaro la posta in gioco di questo genere di avvicinamento della psicoanalisi al testo narrativo o alla costruzione poetica. Secondo il grande studioso siciliano, nello spazio letterario riemergerebbero, traslati e cifrati dalle leggi interne al procedimento poetico o narrativo, non i contenuti psichici rimossi dall’autore, non l’inconscio dell’individuo che lo ha scritto, ma l’insieme delle idee e delle forme di vita che un’epoca ha silenziosamente accompagnato nell’ombra o recluso nelle segrete dell’indicibile.

C’è infine un terzo modo di guardare all’incrocio tra psicoanalisi e letteratura, di cui danno conto brillantemente Alfano e Colangelo: la psicoanalisi stessa, dicono, ha costruito una parte molto rilevante del cammino e del suo strumentario concettuale intorno a figure prese a prestito dalla letteratura. Basterebbe a sostenerlo il ruolo chiave che Freud assegna a Edipo e al ciclo delle tragedie sofoclee, alla posizione strategica che egli assegna alla figura della Gradiva ricavandola da un’opera letteraria tutto sommato minore come quella di Jensen, o ancora al peso straordinario che nel Lacan degli anni centrali assume la figura shakespeariana di Amleto.

Non solo l’inconscio è un laboratorio in cui i procedimenti letterari funzionano allo stato puro; non solo la letteratura è un inconscio a cielo aperto, uno spazio in cui una società non cessa di parlare di ciò che non sa di sé; ma la psicoanalisi stessa è una branca della letteratura, un geniale procedimento retorico, insomma uno di quei giochi di segni attraverso cui, diceva Foucault, ci prendiamo gioco di quei segni che si prendono gioco di noi.