Ci sono molti Francis Bacon. E ancora altri – c’è da credere – ne verranno. Ammesso che qualcosa di nuovo si possa dire di lui, al di là di quanto già è stato detto e stucchevolmente ripetuto. Una strana sovraesposizione a volte s’impossessa di un pittore tanto che il rischio è quello di non vedere più nulla o di trovare nelle sue opere solo ciò che si crede di conoscere. C’è il Bacon dalla vita eccessiva e fuori dai canoni comunemente accettati, c’è il rivendicato anti-accademismo del pittore, c’è un’omosessualità vissuta in maniera assai poco politically correct, c’è l’impatto della sua opera così idiosincratica e sconcertante. E poi ci sono le grandi letture della pittura di Bacon, quelle di Michel Leiris, di John Russell e di Gilles Deleuze su tutte. L’effetto è quello di un prisma che ruoti mandando bagliori da ciascuna faccia e accechi per troppa luce. Dov’è Bacon, allora?
E tuttavia ciò contrasta, per certi versi, con l’estrema chiarezza e il sicuro delimitare il suo lavoro ad alcuni elementi sui quali Bacon torna pressoché con le stesse parole in diverse interviste. Qui Bacon è di una lucidità ammirevole e tale da eliminare in partenza ogni facile esaltazione. La pratica della pittura viene descritta come farebbe un empirista, senza fronzoli e soperchierie. Nessuna mitologia, nessun mistero. È come se Bacon operasse un’estrema riduzione nel tentativo di sgombrare il campo e far emergere, per quanto possibile, il proprio senza proprietà della pittura. E lo fa partendo da un semplice quanto inoppugnabile assunto: non vi è più tradizione. Questo significa almeno due cose: che l’artista è solo – il che sembra stridere con un tempo che ha fatto della nozione di comunità quasi un feticcio. E, secondo aspetto, che a un pittore figurativo (o figurale) come lui non resta che scegliere tra due estremi: da una parte, il resoconto diretto e, dall’altra, il tentativo di creare comunque «grande arte», qualunque cosa ciò voglia dire. Questioni semplici, ma pragmaticamente feconde. Solitudine, infatti, si traduce da un lato con la necessità di confrontarsi direttamente con il «proprio sistema nervoso» e, dall’altro, è la via per uscire dalla mera illustrazione, tanto più nell’età della fotografia e del cinema, e spingersi oltre, passando attraverso differenti livelli e giungere così all’immagine, la quale è, a un tempo, il dispositivo e l’esito per catturare con forza e violenza la realtà «cruda e viva», e fossilizzarla. Non morta; piuttosto presa, sospesa, fatta pittura. La realtà non giace mai disponibile davanti a noi; va strappata dalla mimesi ingenua con vigore, se non con prepotenza.

Realismo e apparenza

Fin da Triptych – Three studies for figures at the base of a Crucifixion (1944), l’immagine viene costantemente disgregata, distorta – anche mediante l’ausilio del caso, del colore gettato sulla tela o dei colpi di pennello incontrollati –, perché solo così si può arrivare a cogliere, indirettamente, l’«apparenza». È qualcosa di misterioso. L’apparenza, infatti, è visibile in ogni momento; e tuttavia in qualche modo rimane fissa nell’istante. Essa è nell’incessante fluire. La difficoltà e la grandezza della pittura stanno allora in questa impossibilità: arrivare a cogliere l’apparenza in ciò che perennemente cambia, e arrivarci con «un’altra tecnica». È questo il realismo di Bacon. Cogliere, catturare, mettere trappole vuol dire arrestare il flusso ininterrotto, oggettivo, quotidiano, ma non per questo meno doloroso, tragico, violento di quello dei corpi gloriosi di Michelangelo nelle loro posture monumentali. Bacon non teme il ridicolo o lo scatologico; nei suoi quadri i corpi vengono isolati dal gesto pittorico – la figura chiusa in gabbie, soprattutto nei dipinti degli anni ’50, richiamo stravolto alla prospettiva, che, con il contorno e lo sfondo, rimarrà costante, pur nella variazione, nella sua opera. Di più: i corpi sono contraffatti nel loro desiderare, tendere, disfarsi e torcersi in movimenti improbabili ed estremi. Quando la cosa riesce, ecco l’immagine reale. La vita che soffre, vive, muore. I corpi preda di forze che li piegano, li deformano, li modificano. Tutto ciò che avviene nello scorrere ordinario del vivere è come astratto, fissato, posto in una dimensione pittorica che permette di vedere. Non c’è narrazione, non ci sono storie. Solo un sentire – pittura di sensazioni. Che la vita venga violentemente strappata, o gridata, o fuoriesca altrettanto drammaticamente dal corpo – è sempre di questo transigere e transitare che è questione, tragico e senza scopo, ogni volta nello spasmo, nell’eccitazione e nell’angoscia che scorrono tra la vita e la morte.

L’informe della carne

Anche per questo Bacon sarà il pittore della carne, ancor più di Rembrandt o di Soutine. Egli la vedrà come l’ombra del corpo che si spande fuori di esso. Nei suoi quadri, infatti, la carne non solo è presente con insistenza (Painting, 1946 e altrove), ma appunto: essa è rappresentata nel suo scivolar via dal corpo (p. es. Triptych – Crucifixion, 1965). La carne e il corpo diventano così due atteggiamenti della materia che si richiamano reciprocamente. Il corpo è la forma; una forma che sembra essere sempre sul punto di diventare specimen, modello, canone. Ma dal corpo scorre via la carne che non ne vuole sapere di stare ferma. La carne è la materia che slitta, che si muove verso il basso nel movimento della morte. È come un’ombra, su cui il corpo non ha giurisdizione. La carne è la condizione tendenzialmente caotica ed estranea rispetto al corpo.
Bacon non distingue – come Paolo – tra sarx, la carne dell’uomo e kreas, la carne degli animali destinata all’alimentazione: «Noi siamo carne, no? – afferma in un’intervista – Quando vado dal macellaio trovo sempre incredibile il fatto di non essere là, al posto dei pezzi di carne». Nella carne Bacon vede lo splendore dei colori e, insieme, una sorta di ricettacolo in cui il corpo è sempre sul punto di perdersi – e tuttavia non è ancora perso. Infatti, in Bacon il corpo mantiene in qualche modo le sue fattezze – la somiglianza nei ritratti, per esempio –, un ultimo, estremo legame con la forma che lo caratterizza e che, in pittura, lo tiene in tensione. Traccia labile ma inequivocabile della figura a cui il pittore non intende rinunciare. Ma su ciò ecco i toni spezzati con i quali la pittura cerca di rendere i colori della carne. E qui la vicinanza al caos è scoperta, difficile da contenere. La carne è caotica, sfuggente, e perciò s’insinua nei pertugi, passa attraverso i fori, è animata dall’impulso a perdersi nelle campiture di colore che circondano la figura. Passaggio nell’informe, nell’indistinto, ma colto sempre un attimo prima. Tendere impersonale della carne in rapporto con i desideri mirati del corpo. Scivolamento e tenuta. È questa lotta/convergenza tra il corpo organico e la carne disorganica che il pittore cattura con l’immagine. Realtà della pittura, con i suoi impasti e colori, che tocca indirettamente la realtà delle cose.

BOX
Nell’ambito della rassegna «Terrestri» al Teatro Astra di Vicenza va in scena stasera alle 21.00 «Caro George» per la regia di Antonio Latella. La pièce, scritta da Federico Bellini, ha per protagonista Giovanni Franzoni ed è costruita intorno a un episodio-chiave della vita di Francis Bacon. Nel 1971 il Grand Palais di Parigi dedica al pittore una retrospettiva. È la consacrazione. Bacon vi si reca con il suo amante George Dyer, di cui sono presenti in mostra molti ritratti, ma il rapporto tra i due è ormai compromesso. Litigano e bevono molto. Il giorno prima del vernissage, George viene trovato morto nella loro camera d’albergo. Il monologo procede rivisitando la relazione tra i due attraverso un flusso verbale inarrestabile, dove il rimorso, la rabbia e l’amore si mescolano in un ostinato e patetico rivolgersi a un tu ormai assente.
Contestualmente, ieri sera il filosofo Alfonso Cariolato ha tenuto una lezione sull’opera di Francis Bacon, di cui pubblichiamo un estratto.