Vedere Ghibli attraverso gli occhi delle persone che vi lavorano, è un’esperienza necessaria, forse doverosa per chi è cresciuto con quelle figure animate su paesaggi, con quei teneri schizzi di desideri e paure. Allo stesso tempo può anche risultare un’esperienza triste se non dura. Mami Sunada (già assistente di produzione e regia in alcuni film Hirokazu Kore-Eda) riesce a muoversi in punta di piedi, a fondersi con lo Studio Ghibli.The Kingdom of Dreams and Madness apre i cancelli di una storia. Miyazaki lotta aggrappato ai valori del suo ultimo film, aiutato dalle ore di lavoro che persone hanno sacrificato a lui, al fine di portare in vita quelle creature.

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Dall’altra parte l’assenza potentissima di Takahata, la metà fantasmatica, volatile e mistica dello Studio, l’immagine mancante di un uomo solitario filtrato attraverso la luce accecante delle sue bozze sempre più irregolari e profonde.

Le visioni cinematografiche emerse dai tavoli da disegno di questo edificio relativamente anonimo hanno influenzato innumerevoli voci creative, e continueranno a farlo nel tempo perché rivendicazione implicita di una diversità artigianale/materica. Schizzi di uno spazio sempre più memoriale e malinconico, di un’infanzia dell’arte. Molti disegnatori, pochi computer, un solo avvocato, un responsabile commerciale e un gatto pigrissimo (quasi un’incarnazione di Totoro). Tanti fogli di carta, un armadio pieno di matite colorate, fiumi di idee condensate da metodo, rispetto del lavoro e amore.

Una storia, di amicizia ed impegno, follia e sogno. Nell’animazione giapponese lo Studio Ghibli è sempre stato un eccezione. Miyazaki e Takahata subito si rendono conto dell’impossibilità di realizzare film così personali in uno spazio produttivo precostituito. È questo che li spinge alla creazione di uno studio indipendente, dopo aver portato a termine Nausicaa Della Valle Del Vento, opera straordinaria quanto seminale. La loro idea era di dedicarsi totalmente ad ogni lungometraggio in lavorazione con budget e tempi sufficienti, senza mai compromettere ciò che avevano nella mente e nel cuore, ciò che facevano nascere dalle proprie mani.

Nasce così lo Studio Ghibli, attraverso esigenze sentimentali quanto politiche, in cui i due registi si sarebbero potuti esprimere con la libertà che la loro creatività richiedeva. Un luogo nuovo, per una lingua nuova dell’animazione mondiale. Da quel giorno tra i due uomini si stabilisce un rapporto stratificato di complementarità, stima ed amicizia. Quando Miyazaki non è alla regia molto spesso produce i film di Takahata e viceversa, ognuno nell’assoluto rispetto dello spazio dell’altro.

Nello studio di Koganei, un piccolo sobborgo fuori Tokyo, Miyazaki lavora dalle 11:00 alle 21:00 tutti i giorni; come un operaio di azienda. Non scrive copioni, maneggia storyboard, poi affida i suoi disegni agli assistenti, sicuro di come il film sarà portato a termine. Allo stesso modo si apre a Sunada, a tratti inizia a filosofare su arte e umanità come qualcuno che viene a patti con il lavoro di una vita, ben sapendo che un percorso sta per finire; dalle amare riflessioni sul Giappone contemporaneo, sul padre e su di un futuro dell’addio (già passato), scava nel suo profondo fino ad ammettere che The Wind Rises è l’unico film che l’ha fatto piangere.

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Nell’altra stanza si compie l’altro addio, quello di Takahata, la monumentale storia della Principessa Kaguya, affresco ancora più intimo nella definizione di una saggezza compiuta e legata alla vita come alla morte. Ma tutto ciò è il controcampo assente, emotivamente distante eppure così presente. La musica, il tono, l’oggetto dei due film, e la candida auto-riflessione di Miyazaki dipingono un ritratto di qualcosa dicosì bello ed unico che sta arrivando al capolinea. La verità è che Miyazaki, Takahata e il popolo dello Studio Ghibli sono stati sempre li, in quelle camere, a plasmare il nostro modo di guardare il mondo solo con le loro mani.

Tutto lo spazio di questo documentario (distribuito in Italia solo il 25 e 26 maggio) si fonde con il nostro sguardo sempre più attratto da quelle figure quasi scolpite nella memoria. Il film pare scomparire nei tramonti su Tokyo, nelle passeggiate attraverso i giardini, nelle riunioni giocose al lavoro. Paiono scomparire anche loro, forse stanchi, forse impossibilitati a vivere questo tempo. Fino a quello squarcio, a quel monito sull’importanza di guardare le cose dall’alto, quando il vento soffia. Il punto di vista di coloro che continuamente abbracciano i personaggi creati dalle loro matite, ora impossibilitati a distaccarsene.

La libertà, la conferenza stampa dell’addio di Miyazaki. In fondo il mondo stesso non è altro che una fabbrica di sogni e di follie, se solo sapessimo ancora ascoltare la dolcezza e la serenità che questi due uomini ci hanno donato. La fabbrica dei sogni però sta chiudendo, gli operai fra non molto usciranno per l’ultima volta e non ci sarà nessuna macchina da presa a definirli perché non ci sarà più nessuna mano a disegnarci, ad abbozzare come siamo fatti dentro, nell’anima più vera.