La New York di Maniac è quella dei nostri giorni. Piena di gente in continuo movimento e non gentilissima, scricchiolante sotto il peso di un’infrastruttura fatiscente, i classici bicchieri di carta azzurra con il motivo greco stampato sopra dove ti mettono il caffè ai Deli, la macchinetta distributrice del New York Post che funziona solo quando la prendi a calci. È insomma la stessa città che abbiamo conosciuto e amato al cinema da sempre – con qualche aggiustamento.

Per esempio, la stazione dei bus di Brooklyn è diventata una biblioteca, in metropolitana ti avvicinano persone pagate per fare da inserzioni umane, ai tavolini degli scacchi, in Washington Square, sta seduto un koala blu acceso, seriamente impegnato in una partita, e una doratissima Statua della «libertà extra» si staglia nel mezzo dell’ East River. La nuova serie serie tv di Cary Joji Fukunaga – da oggi su Netflix, dopo il grande successo di True Detective (appena annunciato come regista del prossimo James Bond), offre altri notevoli dettagli di vita newyorkese, tra cui gli innumerevoli espedienti lavorativi a cui i residenti della città ricorrono per pagare l’affitto (oltre al classico cameriere/a, tra i miei compagni di università andavano forte il vendere sangue, il guardiano notturno e lo striptease).

Owen (Jonah Hill) e Annie (Emma Stone) si incontrano in un misterioso laboratorio dove, per una cifra apparentemente piuttosto alta, alcuni newyorkesi hanno accettato di sottoporsi a un esperimento. Obbiettivo della cura, che gli scienziati vorrebbero lanciare sul mercato, è una vita in cui traumi e dolore non esistono più. Per superarli, dice la pubblicità, basteranno tre pillole -A, B e C. L’impianto filosofico di questa collaborazione tra Fukunaga e il romanziere Patrick Somerville (ispirata da una serie norvegese) sembra puntare a una satira del pensiero delle soluzioni facili e superficiali, il microcosmo del self help in cui si è ristretta, come un cashmere passato in centrifuga, quella nozione di pursuit of happiness, ricerca della felicità, che sta ai fondamenti della costituzione Usa.

Ma quell’ambizione si dissolve presto in un cliffhanger avventuroso più convenzionale, articolato tra presente, flash back e digressioni oniriche, mondi paralleli che ricordano generi di film. Il tutto orchestrato da un mega computer capace di piangere. Owen e Annie – scopriamo presto- non fanno infatti le cavie solo per soldi. Lui, disoccupato da poco, è il figlio minore di una benestante famiglia canterina alla Von Trapp, che vive nell’Upper East Side. Ha tre giorni di tempo prima di offrire falsa testimonianza al processo contro uno dei suoi fratelli a cui, per suggerimento di papà, deve procurare un alibi. Owen è forse schizofrenico, e comunque fa fatica a distinguere realtà e fiction -come quando dei chicchi di gran turco sull’asfalto esplodono improvvisamente in pop corn davanti ai suoi occhi (altra gag ispirata a una classica leggenda metropolitana sulle torride estati di Ny).

Annie è tormentata dalla memoria di sua sorella minore e dell’orribile trauma che le ha coinvolte da ragazzine, e che lei continua a rivivere grazie a una scorta di pillole A procurate da un amico e alle quali è completamente assuefatta. Le regole dell’esperimento, nel misterioso laboratorio senza finestre, diretto da una scienziata giapponese e da Justin Theroux con la parrucca, sono rigidissime e non prevedono che le cavie socializzino tra loro. Ma gli effetti delle trance oniriche indotte dalle pillole cominciano ad accavallarsi nei casi di Annie e Owen. Li vediamo sposini white trash in una trama da Jonathan Demme, Russ Meyer e Todd Solondz che coinvolge un ospizio per anziani e un lemure scippato da negozianti di pellicce. Hanno orecchie a punta quando appaiono all’orizzonte di un paesaggio da Terra di mezzo e sono maghi/ladri di professione a una festa/seduta spiritica nel mezzo della foresta a casa di una medium interpretata da Sally Fields, che però è anche la mamma di Justin Theroux e ha un ruolo determinante nella storia.

Forte dell’ossessiva precisione stilistica e di dettaglio che caratterizza il lavoro di Fukunaga, Maniac ricorda molto gli arabeschi narrativi e tonali di altre serie distopiche come Legion, Mr. Robot e Black Mirror, di cui però non eguaglia l’affilatezza politica. È una storia d’amore a cui manca il romanticismo cupo e totalizzante dei Wachowski.