Negli ultimi tempi, forse come reazione alla segregazione – che portava a immaginare migrazioni dal chiuso delle proprie stanze – e poi magari in ragione di uno sfogo, di una proiezione dentro i luoghi riconquistati; sono comparsi nei cataloghi delle etichette discografiche e sugli scaffali dei negozi specializzati decine e decine di dischi di kraut-rock e space-rock, molti di più di quelli che fisiologicamente vengono pubblicati ogni anno. Come una volontà, da parte dei musicisti, di abitare nuovi spazi, ecosistemi sedimentati da flanger aperti, spalancati; overdrive connessi tramite cavi ad alta percentuale d’argento al modello di Interstellar Overdrive; riverberi, delay, cioè dilatazioni della dimensione spaziale, del singolo elemento sonoro: è lo space-rock, quello degli Electric Moon, degli Ufo Over Lappland, ecc., cioè una concezione della musica basata sullo spazio, su un’impressione di stasi, sul riempimento, piuttosto che sulla corsa, di queste zone fantastiche.

E NON È CASUALE che quest’esperienza sembra non possa prescindere dalla superficie, dalla materialità del supporto, il vinile evidentemente, quasi sempre pigmentato da tinte sgargianti verde arancio, rosacee, violacee: c’è una strana, misteriosa consecuzione tra questa musica e il supporto fisico, come se lo spazio evocato dalla partitura inizi e si regga sulla plastica ruotante lì ogni volta sul giradischi e il suo segreto sia intrinseco ai solchi, agli anfratti del disco.
O invece fughe, al di là di questi interminati spazi, corse scandite da ritmi elementari, ripetitivi, ossessivi, cioè il kraut-rock, una prospettiva fondata sul concetto di tempo, di movimento dettato così tipicamente, in modo così riconoscibile, dalla batteria, di cui Hallogallo dei Neu! è uno degli esempi più compiuti e che ora è reinterpretato di volta in volta da moltissimi gruppi sparsi in tutto il mondo e persino da un musicista come Andy Bell, ex bassista degli Oasis e ora incline a una musica di ricerca che si accosta al krautrock (oltre che allo shoegaze, alla psichedelia, all’elettronica) come dimostra Indica, contenuto nel suo ultimo disco The View of Halfway Down uscito lo scorso autunno.

DAL CILE dei Follakzoid (forse i più ossessivi) al Giappone dei Minami Deutch, al Portogallo dei 10000 Russos, il kraut dopo essersi disseminato ovunque torna alla Germania dove tutto è cominciato e che ora, tra una miriade di gruppi che sperimentano, diversificano sul modello kraut (ad esempio i Flying Moon in Space), vede emergere l’esperienza di kraut puro, classico, dei Camera e dei Sei Still, entrambi usciti quest’anno con un nuovo disco; anzi, nel caso dei Sei Still si tratta del loro primo lavoro, edito in sole cento copie. I Camera invece è ormai più di un decennio che praticano una musica in metrica progressione, condotta dalla batteria, dal rullante, a indicare la strada per fughe ininterrotte, come nel loro ultimo Prosthuman in cui accanto alla chitarra eterea emerge un maggiore sostrato elettronico. Che poi a ben vedere è quello che fa di Rohstoff dei Zement il capolavoro kraut di quest’anno, tanto da sfociare alla fine, in Entzücken, in una sorta di techno a cassa dritta; un disco in cui si avverte sin dal principio il senso dell’avventura inscritto nel kraut-rock e nello space-rock: un vento mistico che spira sugli spazi e sui tempi, che sono gli spazi e i tempi perduti, stellari, del nostro essere niente,

O «POSTHUMAN» dei Trees Speak in cui il tempo rullante e gli spazi espansi dall’elettronica, dal sax, dal synth, isole eteree di materiale musicale e controtempi tendenti al jazz, si mischiano in un disco eccezionale, un’opera dai toni drammatici suddiviso in strofe. E poi ci sono i Papir, danesi, a improvvisare nell’ennesimo loro capolavoro uscito lo scorso aprile, Jams, che ancora una volta intreccia momenti scintillanti di chitarra e movimenti di basso e batteria esorbitanti poi, nelle fasi più veloci, di piatti tentacolari, abbaglianti, barocchi, fino a microcosmi che s’assottigliano, si fanno acqua, specchio d’acqua in cui sembra tramontare ogni suono.