Ci si può emozionare anche nel leggere studi sul valore filosofico delle emozioni redatti da accademici? A me è capitato leggendo i brevi saggi raccolti in un volumetto che non esita a intitolarsi Filosofia delle emozioni (a cura di Isabella Adinolfi e Laura Candiotto, Il melangolo, Genova 2019). Ne sono autori cinque tra studiose e studiosi parimenti impegnati a seguire nelle opere di filosofi e scrittori le tracce di quei passaggi straordinari che aprono all’accesso di verità altrimenti celate alla mente, impedite a investire la coscienza. Dunque forme di conoscenza cariche di una componente affettiva necessaria per una comprensione del reale in cui pensare, sentire e agire sono coinvolti allo stesso titolo.

Bisogna peraltro riconoscere che l’operazione riesce tanto meglio a motivo della qualità anche letteraria degli interventi, nonché del tono a tratti intensamente partecipe degli autori, che sono, oltre alle curatrici, Marco Fortunato, Roberta de Monticelli e Luigi Vero Tarca.
Studiosi diversi per interessi filosofici e sensibilità intellettuale, ma convergenti nel riconoscere alle emozioni un ruolo principale nella ridefinizione dei processi conoscitivi dominati dal linguaggio concettuale, in consonanza con le correnti innovative del pensiero contemporaneo e con l’imporsi del pensiero delle donne. Una svolta critica che ad avviso di Tarca dovrebbe condurre a riconoscere che la dimensione emotiva non solo costituisce una forma propria d’intelligenza, ma è altresì «momento essenziale per il funzionamento della logica proprio nei suoi aspetti più basilari e fondativi». In altri termini, l’aspirazione alla conoscenza, non meno che quella alla produzione del bello e alla realizzazione del bene, mette in moto una quantità di disposizioni affettive che hanno un valore epistemico nella misura in cui – scrive Laura Candiotto – «agiscono letteralmente come motori di un apparato cognitivo volto al proprio perfezionamento».

Non sorprende perciò che una siffatta ricerca ricorra alla letteratura come a una riserva inesauribile di situazioni immaginarie cariche di valore conoscitivo. È il caso di Roberta de Monticelli, che muove da una pagina tratta da Vita e destino di Vasilij Grossman per cogliere in profondità il nesso tra la moralità e la conoscenza, tra l’etica e la scienza. Nel racconto infatti una questione puramente teorica si risolve in un’esperienza che coinvolge per intero la persona, in modo tale che la scoperta di una verità scientifica si dà inseparabile da una rinnovata libertà morale e quindi dalla scoperta del proprio valore, «quel valore, per l’esattezza, in virtù del quale vale la pena di vivere, nonostante tutto il dolore che la vita porta con sé».

A sua volta Isabella Adinolfi muove da un racconto di Anna Maria Ortese e da un episodio leggendario della biografia di Alessandro Magno per esplicitare la funzione mediatrice che nel pensiero di Simone Weil il bello svolge nei riguardi del bene, dal momento che ne è la sua manifestazione sensibile: «Il bello – scrive Weil – è il contatto del bene con la facoltà sensibile così come il vero è il contatto del bene con l’intelligenza». L’armonia che nell’esempio di Grossman univa il coraggio morale e la visione intellettuale trova dunque nell’emozione del bello il primo impulso e l’annuncio di un compimento estatico.

Di questa appassionata indagine, direi che il saggio di Fortunato è quello più direttamente impegnato a perseguire un pensiero emozionale, proprio perché il valore conoscitivo delle emozioni non vi è argomentato, bensì messo in scena sotto la figura dell’indignazione, a partire da pagine di Pasolini che la elevava a giudizio sul «caso italiano», e qui indagata al fine di svelare la carica veritativa, etica ed escatologica del «gesto, inteso sia come parola che come atto, che intende realizzare la restitutio in integrum della giustizia e della verità ferite». Così, la condanna del proprio presente si universalizza a «condanna della miseria di ogni presente».