Un intellettuale dai piedi scalzi, sempre al confine tra ricerca empirica e riflessione politologica. Una posizione ai margini, la sua, che gli consente di cogliere le faglie, i punti di crisi di un sistema sociale e di una forma di vita chiamata capitalismo. E un giornalista consapevole che l’accumulo dei suoi scritti e delle sue trasmissioni tv contribuisce a definire una storia del presente che ha necessità di misurarsi con i fenomeni di lunga durata sul quale il primo autore si applica. Sono Marco Revelli e Luca Telese, protagonisti di un dialogo dal titolo Turbopopulismo (Solferino, pp. 218, euro 11,90) dedicato alla comprensione di un fenomeno politico, sociale, culturale globale come il populismo, interpretato come manifestazione della crisi della democrazia rappresentativa e come reattività degli impoveriti e dei «declassati» dalla globalizzazione neoliberale.

IL LIBRO è diviso in tre parti. La prima riguarda la giovinezza di Marco Revelli, il suo rapporto con il padre Nuto, militare di carriera scopre l’ipocrisia, l’opportunismo dei fascisti al potere e torna nel suo Piemonte antifascista e pronto a prendere le armi contro il regime. Ma Nuto è stato anche ricercatore e lo storico orale che, impugnando il suo registratore Grundig, ha raccolto i racconti del dolore, l’umiliazione, i soprusi immanenti alle pratiche di annientamento di una intera generazione che il regime mussoliniano ha mandato a morire con la seconda guerra mondiale. Chiude questa prima parte la scoperta della politica di Marco Revelli, il Sessantotto, la sua esperienza con Lotta Continua.

La seconda parte del libro è una discesa negli inferi del populismo reale. La xenofobia, l’odio per la democrazia, il risentimento verso gli ultimi della società da parte dei penultimi che hanno il terrore di essere spinti giù dal gradino per essere anche loro definitivamente declassati. Dalla Brianza al Meridione d’Italia, dalle Midland scozzesi alle città deindustrializzate della Rust Belt statunitense, dalle periferie francesi ai tanti sud del mondo depredati non c’è luogo simbolo della crescita del populismo che manca all’appello. Interessante è in questa parte la riflessione attorno alla necessità di cambiare la cassetta degli attrezzi dell’analisi, rappresentata, secondo Revelli, dall’abbandono delle vecchie griglie analitiche per abbracciare invece altre mappe cognitive.

OCCORRE FORSE diventare dei cartografi, annota Revelli, per dare conto dei tanti terremoti, anche apocalissi sociali, che hanno colpito il capitalismo. La fibrillazione dei margini, cioè l’inedita centralità delle periferie rispetto a quello che veniva individuato come il cuore, il centro dello sviluppo economico e del potere politico. Impressionanti sono i dati degli smottamenti elettorali che hanno consentito a leader di élite negative come Donald Trump. Matteo Salvini, Boris Johnson, Marie Le Pen di diventare l’ago della bilancia dei loro sistemi politici.

Luca Telese, dal canto suo, racconta l’esperienza di giornalista inviato a documentare le rivolte in alcuni quartieri periferici romani dopo l’annuncio dell’arrivo, stabilito dai politici lontani nel tempo e nello spazio, di migranti. Quartieri che schiumano rabbia, risentimento verso i migranti e i poveri. Oppure rifugio e luogo di elezione del trash espresso nel disprezzo e la malcelata gioia per la morte di centinaia di migranti nel Mediterraneo.

C’è però in questa seconda parte una certa accondiscendenza verso le narrazioni mainstream del populismo. Sicuramente Andy Capp, l’operaio machista, ubriacone e orgogliosamente labour avrà votato per la Brexit, ma non è convincente vedere il voto inglese come una cristallizzata polarizzazione tra vecchia classe operaia e millennials fighetti sedotti dagli algoritmi degli smartphone. La global city londinese non è infatti una realtà omogenea. Ci sono riders, precari, proletariato metropolitano della gig economy sfruttato tanto quanto i tanti Andy Capp che, delusi dal labour in Scozia, hanno tuttavia votato per il partito indipendentista che vuole rimanere in Europa con un programma elettorale laburista. Uno scenario in movimento che invece nel libro viene sacrificato sull’altare della rappresentazione mediatica.

La terza parte del volume riguarda le possibili forme di resistenza al Turbopopulismo. Impoverimento, declassamento del ceto medio e del lavoro dipendente, centralità politica dei margini (le periferie). Siamo tuttavia in un interregno – categoria usata da Antonio Gramsci – dove il vecchio è morto e il nuovo ancora non riesce a manifestarsi. Revelli e Telese danno una rappresentazione della sinistra come agglomerato politico di un ceto medio affluente risparmiato dallo tsunami della globalizzazione. Una lettura che ha però il sapore consolatorio del moralismo. Più realistica è semmai la parentesi aperta ma purtroppo subito chiusa da Revelli quando considera essenziale alla comprensione del mondo indagare il movimento marxiano sull’appropriazione privata del plusvalore prodotto nel lavoro. Svilupparla avrebbe dato più «profondità» alla critica della sinistra che ha alimentato il neoliberismo economico e politico.

DUNQUE quale resistenza? In queste settimane i media italiani sono stati riempiti di analisi sulle «sardine». Marco Revelli ha salutato questa irruzione di corpi nelle piazze come una ventata di aria nuova, cercando inoltre di diradare il clima surreale che ha accompagnato la discussione allorquando i critici più aspri di quelle manifestazioni si collocavano a sinistra.

Il populismo è tuttavia la forma politica che definisce rigidi e angusti confini all’ordine del discorso politico, manifestando al contempo una cangiante capacità egemonica e innovativa nella società. Se un movimento inizialmente di opinione come le «sardine» vuol violare i confini dell’ordine del discorso dominante deve dunque forzare le compatibilità dettate dalla fabbrica del consenso. Se lo farà è partita aperta. Come lo farà è ancora tutto da scrivere, proprio da quelle «sardine» che hanno deciso di prendere la parola.