«Sovranismo» è una delle parole del momento. Si tratta di un quasi neologismo, rapidamente entrato nell’uso comune, per aderirvi o per prenderne le distanze. Nell’accezione corrente, si riferisce all’auspicio, sul piano politico o teorico, di un ritorno al protagonismo dello stato nazionale al fine di contrastare le tendenze globalizzanti sul piano sia dei circuiti economici e/o delle mobilità umane sia dei funzionamenti istituzionali. E questo da destra come da sinistra, a partire da contenuti diversi e opposti, con da una parte il riferimento a una dimensione locale, in cui convergono autorappresentazioni vittimistiche e toni razzisti più o meno espliciti, da difendere nei confronti di un fuori minaccioso, dall’altra l’idea che lo stato costituisca il «contenitore» che solo può riattivare l’universalismo democratico o, addirittura, la parzialità della politica di classe.

PARLARE di sovranismo chiama in causa un concetto, fondamentale quanto problematico, della modernità politica, quello di «sovranità», che per un certo periodo era apparso legato a un mondo ormai trascorso. Esso figurava fra le vittime – con lo stato, il lavoro, i territori, la storia, i confini – dell’esecuzione di massa che scandiva la titolazione, all’insegna della «fine di», di fortunati volumi usciti nel post ‘89 cavalcando le più semplicistiche narrazioni sulla globalizzazione. Già in precedenza, tuttavia, su un piano teoricamente più solido, prospettive anche distanti fra loro avevano posto l’accento sulla necessità di liberarsi, nell’analisi delle dinamiche politico-istituzionali, dall’ipoteca del concetto di sovranità. Il riferimento è alla teoria del diritto puro di Hans Kelsen o al funzionalismo strutturale di Niklas Luhmann, per i quali, in fondo, quello della sovranità è un problema mal posto.

SU UN DIFFERENTE versante, l’analitica del potere di Michel Foucault, con il suo programma allo stesso tempo descrittivo e prescrittivo, si incentra su un ribaltamento di scala e senso in base al quale la sovranità deve essere intesa come non causa ma effetto di relazione di potere che si sviluppano a livello microfisico.
Per fare il punto sul ritorno della sovranità al centro del dibattito giunge la pubblicazione, da parte del Mulino, di un agile volume titolato appunto Sovranità (pp. 154, euro 12). Ne è autore Carlo Galli, studioso noto per il suo lavoro su Carl Schmitt e i numerosi contributi sui concetti e le spazialità politiche della modernità. Sovranità è diviso in due parti. Nella prima abbiamo un’esposizione storica sulla sovranità e le sue plurime declinazioni, da Bodin a Hobbes, da Rousseau a Heller, che contrappuntano il processo di consolidamento, costituzionalizzazione e democratizzazione dello stato. Da segnalare è la capacità della sintesi di non reificare il concetto, di presentarlo nei termini non di una cosa in sé, data una volta per tutte, ma di un progetto politico, sempre contingente, soggetto a plurime variazioni e campo di tensione fra forze antagoniste. Ma il volume di Galli non è solo un’opera di efficace divulgazione. Si tratta anche di uno scritto militante, che prende partito intorno ai nodi di un presente scandito dall’esplodere delle diseguaglianze economiche, dalla crisi della legittimità democratica, dall’incapacità della politica di imbrigliare le dinamiche dei mercati.
Storicamente, la triplice articolazione sovranità, popolo, territorio ha rappresentato la cornice nella quale ha preso forma una formidabile fase di espansione dei diritti sociali, di riequilibrio delle disimmetrie del mercato e di incremento della partecipazione democratica. Da qui la suggestione riguardo la possibilità che essa possa costituire il terreno su cui rilanciare la politica democratica.

SI TRATTA di una sensibilità espressa, con maggiore assertività, anche in altri volumi di recente uscita, per esempio Sovranità o barbarie. Il ritorno della questione nazionale di Thomas Fazi e William Mitchell (Meltemi, pp. 316, euro 20) o Sovranismi. Stato, popolo e conflitto sociale di Alessandro Somma (DeriveApprodi, pp. 162, euro 12). Comune ai due libri è una serrata critica all’Unione europea, condotta dal punto di vista non delle promesse mancate ma di quelle realizzate, che rimanderebbero alla costituzione di un dispositivo ordoliberista volto alla spoliticizzazione della sfera economica e alla creazione di un Grossraum funzionale all’egemonia economica tedesca.

IN TAL SENSO l’appello a «più Europa», oltre a rimanere interno alla grammatica di un «sovranismo» che intenderebbe superare, limitandosi a riproporlo a una scala maggiore, si concretizzerebbe in un rafforzamento delle tendenze che si vorrebbero contrastare.
In Sovranità o barbarie, sul piano della proposta, l’accento si appunta sulla riattivazione del contenitore statale, e delle sue frontiere, come contesto in cui la moneta nazionale, in condizioni di moneta legale o fiat, possa dispiegare le proprie potenzialità espansive e redistributive. Non a caso uno dei due autori è William Mitchell, economista ascrivibile alla Modern Monetary Theory, un controverso tentativo di rielaborazione del lascito keynesiano secondo cui sarebbe possibile liberare la dimensione macroeconomica dai vincoli microeconomici a partire dalla capacità dello stato di emettere moneta. Il volume di Somma, invece, si muove su coordinate più storico-costituzionali, ponendo l’accento su una dialettica fra sovranità dello stato e sovranità popolare che troverebbe nel contesto nazionale una modalità di articolazione favorevole all’emergere di istanze emancipatorie e partecipative.

Nei confronti di simili prospettive si possono nutrire perplessità. La puntualizzazione di come la deregulation, l’autonomia e l’autoreferenzialità dei mercati siano non un dato «naturale» ma un costrutto determinato da decisioni politiche nulla dice circa la reversibilità di tale processo. Non è così facile fare rientrare il dentifricio nel tubetto… Inoltre, se il combinato disposto sovranità, popolo e territorio ha permesso lo sviluppo di politiche di redistribuzione della ricchezza, consolidamento dei diritti sociali e imbrigliamento delle logiche capitaliste, le profonde trasformazioni che hanno interessato in questi decenni le componenti di quel triedro aprono un interrogativo radicale circa la possibilità di riproporlo.
Il popolo, paradossale prodotto della sovranità, ma al contempo suo fondamento, sembra declinarsi oggi come mera collezione di interessi privati più o meno fantasmatici, un universo atomizzato e fluttuante privo di quell’articolazione fra unità e pluralità garantita nella forma-stato liberal-democratica da partiti di massa, sindacati e altri corpi intermedi.
Il territorio, da parte sua, appare soggetto a processi di differenziazione, in relazione allo spazio dei flussi e a processi di connessione, deconnessione e scalarità, tali da rendere ardua una sua declinazione al singolare. Lo stesso vale per i dispositivi confinari, sottoposti a processi di ridislocazione e ridefinizione dei loro funzionamenti.

MA QUALI SONO le alternative? L’appello a una democrazia cosmopolita supportata dalle istituzioni della governance globale, che al volgere di millennio aveva riscosso un certo entusiasmo, appare oggi niente più che un’ipotesi di scuola. Su un versante più solido troviamo gli approcci, ispirati alla sociologia luhmanniana, che a fronte di una differenziazione settoriale e non territoriale del diritto e all’emergere di sistemi globali non statali ad alto livello di autoreferenzialità, puntano sull’autolimitazione dei sistemi parziali, in particolare di quelli economici e finanziari, legata alla possibilità di attivare «inibitori endogeni» nei loro stessi medium. In termini più generali, ci si potrebbe chiedere se anziché appellarsi a un ritorno alla messa in forma statale non sia preferibile scommettere sulla costruzione di istituzioni correlate alle nuove forme di spazialità politica. Si tratta di un auspicio teorico facile da formulare, verso cui paiono convergere lotte, conflitti e aggregazioni ma di cui tuttavia, al presente, si stenta a cogliere concrete emergenze.