«Il Tigri, fiume della Mesopotamia, sgorga dal Paradiso e si dirige verso il paese degli Assiri, e dopo molte deviazioni si getta nel Mar Morto. È chiamato con questo nome per la sua rapidità, sull’esempio della tigre che corre velocemente», si legge nel XIII libro delle Etymologiae di Isidoro di Siviglia. Plinio il Vecchio, al quale attinge – fra gli altri autori latini – il teologo e compilatore nato a Cartagena verso il 560 d.C., riferisce che sia il Tigri che l’Eufrate sfociavano direttamente nel mare – la cui linea di costa era allora più arretrata –, senza mai congiungersi come invece accade oggi.

IL TIGRI NASCE nell’altipiano armeno del Tauro e per circa cinquecento chilometri lambisce l’odierna Turchia, marcando poi il confine con la Siria. Per il resto dei suoi quasi duemila chilometri, il fiume «freccia» – che, in pianura, procede invece lento e sinuoso – scorre in territorio iracheno, dove bagna Mosul e Baghdad. A Bassora si unisce con l’Eufrate e, prima di sfociare nel Golfo Persico, muta il suo nome in Shatt al-’Arab. Ma le rive dove un tempo sorgevano città prospere, che ancora nutrono l’immaginario universale, quali Ninive, Ctesifonte, Seleucia e Lagash, sono attualmente minacciate dai cambiamenti climatici, dalla costruzione di mastodontiche dighe a centrale idroelettrica in Turchia e in Iran e dall’inquinamento.

Il paese dell’antica Assiria (ora parte delle terre curde) è affetto da siccità estrema, come raccontano Arianna Pagani e Sara Manisera del collettivo Fada nel webdoc Iraq without water, realizzato nel 2020 con il sostegno della Ong «Un Ponte per». Qui, in una delle più vaste aree umide al mondo, a cavallo delle imponenti catene montuose dello Zagros e delle immense pianure attraversate dal Tigri e dai suoi affluenti, la missione archeologica congiunta italo-curda diretta da Daniele Morandi Bonacossi e Bekas Jamaluddin Hasan (succeduto nel 2021 a Hasan Ahmed Qasim) ha individuato 1150 siti archeologici, databili dal Paleolitico all’epoca ottomana.

LE RICERCHE dell’Università di Udine e della Direzione delle antichità di Duhok – svoltesi nel quadro del progetto archeologico regionale «Terra di Ninive (Parten)», attivo dal 2012 nel Kurdistan iracheno e mirato a ricostruire la storia dell’utilizzo delle risorse, a partire dall’acqua e dai suoli, ha portato alla scoperta dell’impressionante canale di Faida, scavato nella roccia ai piedi di una catena di colline, dalle cui sorgenti carsiche l’acqua veniva convogliata.

Sulla sponda sinistra del canale, nel 2019 e in seguito nel 2021, gli archeologi del progetto «Parten» hanno scoperto dodici straordinari rilievi rupestri di quasi cinque metri di larghezza per circa due metri di altezza, che rappresentano il sovrano in preghiera di fronte alle statue, su podio, delle principali divinità del pantheon assiro.

Kemune, la città sommersa

Più recentemente, durante il prelevamento di grandi quantità d’acqua dal bacino idrico di Mosul, a Kemune, località della riva orientale del Tigri dove era già stata individuata la presenza di un sito archeologico, sono riemerse le rovine di una città dell’Età del Bronzo.

Un evento inaspettato ma provvidenziale che ha spinto gli archeologi Hasan Ahmed Qasim, presidente dell’Organizzazione per l’archeologia del Kurdistan (Kao), Ivana Puljiz dell’Università di Friburgo e Peter Pfälzner dell’Università di Tubinga, ad effettuare uno scavo di salvataggio. Le operazioni, finanziate dalla Fondazione Fritz Thyssen e volte a documentare le emergenze archeologiche prima che i laghi formati dalle dighe fossero nuovamente colmi, si sono svolte tra gennaio e febbraio del 2022 in collaborazione con la Direzione delle antichità e del patrimonio di Duhok.

MALGRADO IL POCO TEMPO a disposizione, gli studiosi sono riusciti a mappare in maniera esaustiva i resti dell’insediamento, la cui superficie occupa approssimativamente sei ettari. Nel 2018, l’equipe curdo-tedesca aveva individuato nella medesima zona un palazzo di epoca Mittani (XVI-XIV secolo a.C.) cinto da un rinforzo di mattoni crudi di più di due metri di spessore e quasi sette di altezza. In quella breve campagna di ricerche, favorita dal ritiro delle acque dei bacini, gli specialisti avevano anche riscontrato tracce di pitture murali, nei toni chiari del rosso e del blu, tipiche del II millennio a.C. Le strutture riportate alla luce agli inizi del 2022 sono altrettanto notevoli: mura massicce fiancheggiate da torri, un monumentale edificio a più piani adibito a deposito e diversi atelier per le attività artigianali.

IL COMPLESSO URBANO doveva costituire un centro piuttosto importante dell’impero di Mittani – entità rivale degli imperi ittita ed egizio –, che tra il 1550 e il 1350 a.C. controllava gran parte della Mesopotamia settentrionale e della Siria. Gli studiosi ipotizzano potrebbe trattarsi della città di Zakhiku. Nonostante i muri degli edifici, eretti con l’utilizzo di mattoni di fango essiccato al sole e alti in alcuni punti fino a diversi metri, abbiano giaciuto sotto l’acqua durante quarant’anni il loro stato di conservazione è sorprendente.

Fu proprio la distruzione della città a causa di un terremoto verificatosi intorno al 1350 a.C. a preservarli, proteggendoli sotto al crollo degli elementi costruttivi superiori. L’ambiente che gli studiosi hanno interpretato come magazzino è di particolare interesse perché al suo interno dovevano concentrarsi enormi quantità di merci, probabilmente giunte lì da tutta la regione. Tale opulenza si spiega con la posizione strategica della città a monte del Tigri e delle fertili vallate della Bassa Mesopotamia. Ma il rinvenimento più promettente riguarda cinque vasi in ceramica che contenevano un archivio di oltre cento tavolette cuneiformi di argilla cruda.

I REPERTI, prodigiosamente sopravvissuti, risalgono al periodo medio-assiro, ovvero a un’epoca successiva al terremoto. Alcune tavolette sono ancora avvolte in un involucro di argilla, una sorta di imballaggio del II millennio a.C. Per il momento, il contenuto dei documenti resta oscuro né si conosce esattamente la lingua in cui furono redatti.

A giudicare dal contesto, Puljiz ritiene si tratti di un archivio privato. I ricercatori sperano che in futuro questa scoperta possa fornire importanti indicazioni sulla fine della città del periodo Mittani e sull’inizio del dominio assiro nella regione. Ma le tavolette di Kemune (forse Zakhiku), in corso di decifrazione, potrebbero rivelare notizie anche sulla perduta città di Washhukanni, capitale dell’impero Mittani verosimilmente ubicata attorno al corso siriano del Khabur, un affluente dell’Eufrate.

Nel frattempo, per evitare ulteriori danni al sito dovuti all’innalzamento delle acque, gli edifici scavati sono stati rivestiti da teli in plastica successivamente coperti da ghiaia. Il vasto progetto di tutela, finanziato dalla Fondazione Gerda Henkel, ha lo scopo di conservare le pareti di argilla cruda e qualsiasi altro reperto ancora sepolto durante i periodi di inondazione. Il sito, infatti, è di nuovo interamente sommerso assieme a tutti i suoi segreti.