Il bar dov’è stato ucciso Sekine Traorè è stato messo in piedi in una delle tende azzurre con la scritta «Ministero dell’Interno». Dall’ingresso principale della baraccopoli di San Ferdinando ci si arriva voltando a sinistra dopo aver superato una macchia di bruciato che è tutto quel che rimane di un’altra tenda, carbonizzata dall’esplosione di una bombola del gas, più avanti, una bancarella improvvisata di abbigliamento.

Alcuni immigrati – come il ventisettenne maliano ucciso da un carabiniere l’altra mattina – vi trascorrono intere giornate, bevendo alcol di pessima qualità e a volte inveendo contro la sorte che li ha costretti ad abbandonare i paesi di provenienza per incontrare l’Italia peggiore.

Oltre che ai malanni causati dalle dure condizioni di vita e di lavoro e dalle precarie condizioni igienico-sanitarie e alimentari, l’ambulatorio che Emergency ha aperto a Polistena, in un palazzo confiscato al clan Versace, ha messo a disposizione dei migranti di San Ferdinando uno psicologo. «I problemi sono tanti, da quello del superamento della traversata nel Canale di Sicilia alla perdita dei familiari», spiega la coordinatrice Alessia Mancuso.

Per questo ogni giorno una navetta dell’associazione fondata da Gino Strada, con a bordo un mediatore culturale e un infermiere, percorre 60 chilometri tra campi e baraccopoli per andare ad ascoltare i migranti e, se è il caso, trasportarli all’ambulatorio per una visita specialistica.

Sei anni dopo la rivolta che fece parlare di loro per qualche giorno, si sono resi conto che per loro il futuro non potrà essere che uguale, se non peggiore, del presente. Per questo, incattiviti e rassegnati, molti di loro non credono più alle promesse, ma quasi non si ribellano più. La gran parte di loro, in questi giorni, sono rimasti a San Ferdinando pure se in questa stagione lavoro non ce n’è. Negli anni passati andavano in Puglia o nelle campagne del casertano e del salernitano per la raccolta dei pomodori. Oggi preferiscono rimanere a San Ferdinando a non far nulla perché hanno capito che il gioco non vale la candela e per loro, in ogni caso, non cambierà nulla.

Il presidente della cooperativa Valle del Marro, Domenico Fazzari, ha un’opinione chiara su quanto è accaduto negli ultimi anni: «La ribellione del 2010 è stata un’occasione mancata per i migranti, che avevano l’opportunità di risollevarsi dall’oppressione». Invece, spenti i riflettori mediatici, la catena dello sfruttamento ha ripreso a funzionare come prima: 18 centesimi al chilo pagati dai produttori ai piccoli coltivatori di agrumi, 25 euro al giorno da quest’ultimi agli africani, 5 euro dai migranti ai caporali. Una catena al ribasso nella quale ogni centesimo guadagnato o perduto può risultare importante.

La Valle del Marro, grazie al contributo della fondazione fiorentina «Il cuore si scioglie», ha offerto sei borse di lavoro, con regolare contratto («una vera e propria rivoluzione, da queste parti»), ad altrettanti immigrati della baraccopoli (calciatori del Koa Bosco, la squadra di calcio della baraccopoli che quest’anno ha giocato nel campionato di Seconda categoria), portandoli a lavorare nei loro terreni, confiscati alle cosche di Rosarno e Polistena. I loro prodotti sono finiti sugli scaffali delle Coop, che ha firmato un protocollo d’intesa con l’associazione antimafia Libera e con una campagna denominata «Buoni e giusti» ha individuato tredici filiere «etiche», dove il prodotto che finisce sugli scaffali è controllato fin al momento in cui viene staccato dall’albero.

L’obiettivo ora è di trovare altri finanziamenti per garantire contratti stabili a più immigrati. Qualcosa di analogo fanno i giovani della rete «Sos Rosarno», che sono riusciti a mettere in piedi una propria catena produttiva e distributiva, parallela ed estranea ai tradizionali canali di mercato. Autoproduzione e filiere controllate, salari decenti e lavoro senza sfruttamento: per gli attivisti è la via giusta per risolvere una questione andata in cancrena per la totale assenza della politica.

Nel frattempo la baraccopoli di San Ferdinando è diventata una vera e propria cittadella autogestita: a destra del bar, annunciato da una tabella improvvisata, c’è una macelleria. Più avanti, vicino alle toilette chimiche, si aggiustano biciclette. Altrove, per cinquanta centesimi si può mettere dell’acqua a scaldare sul fuoco e c’è pure una moschea improvvisata. Attorno alla tendopoli ufficiale, proliferano le baracche messe in piedi alla meglio dai nuovi arrivati, mentre un capannone industriale dismesso è stato adibito a dormitorio.

Ma questa non è che la punta dell’iceberg: non si ha una stima precisa, infatti, delle centinaia di «invisibili» che dormono in tuguri improvvisati nelle campagne in cui sono impiegati.

Per porre fine a una situazione ormai esplosiva, le associazioni della Piana di Gioia Tauro stanno lavorando a una legge regionale che risolva la questione abitativa. Con loro c’è la Cgil, in particolare lo Spi e la Flai, i cui attivisti del sindacato di strada percorrono ogni giorno le campagne con un furgoncino per avvicinare i lavoratori e istruirli sui loro diritti. Il modello è «l’accoglienza diffusa».

In buona sostanza, si tratta di censire e rendere disponibili per gli immigrati le case sfitte. Ma tutto è complicato dalla latitanza delle istituzioni, dalla crisi e dalla deflazione economica che spingono sempre più giù i compensi e riducono le prospettive di lavoro.

«Dobbiamo capire che dare una mano agli immigrati è dare una mano a noi stessi», dice Fazzari, per il quale «non si potrà mai parlare di legalità da queste parti finché rimarranno in piedi baraccopoli come quella di San Ferdinando». Il governo mafioso del territorio passa pure per il mantenimento di uno status quo che giova a cosche e sfruttatori.

L’uccisione del giovane Sekine Traorè da parte di un rappresentante dello Stato è la ciliegina sulla torta.