A poche ore dalla cerimonia del Palmarés, e con ancora una sveglia mattutina per l’ultimo film in gara, Macbeth di Justin Kurzel, sulla Croisette si inseguono le scommesse sulla Palma d’oro. Chi vincerà la 68esima edizione? Tra i più amati almeno dalla stampa internazionale c’è Mia madre di Nanni Moretti, già premiato con La stanza del figlio, e regista molto sostenuto in Francia. Il quotidiano Libération ha consegnato idealmente la «sua» Palma a The Assassins del regista di Taiwan Hou Hsiao Hsien, sublime rappresentazione della Cina nel IX secolo immersa in una geometria folle di sensualità, colori, stoffe, ossessioni del dettaglio.

Ma in fondo: è davvero così importante sapere chi ha vinto, per noi almeno? Le «nostre» Palme sono per lo più fuori dalla competizione ufficiale – dove insieme a The Assassins metterei lo Jia Zhang-ke di Mountain May Depart, Todd Haynes di Carol, e poi Mia madre e Il racconto dei racconti. La Palma va al meraviglioso Le mille e una notte di Miguel Gomes che è planato sulla Croisette «occupandola» con tre giorni di proiezioni, feste, e soprattutto un’esperienza di immaginario che segna un passaggio profondo nel cinema contemporaneo. E poi il Garrel (Philippe) di L’ombre des femmes, i Trois souvenirs de ma jeunesse di Arnaud Desplechin, e il Cimitero dello splendore di Apichatpong Weerasethakul (questo però nel Certain regard).

Qualcuno si dice deluso da Cannes 68 ma basterebbero queste visioni per essere felici. Rimanendo alla «selezione ufficiale»: ha mantenuto la sua promessa di rinnovamento il delegato generale Thierry Frémeaux? C’erano new entry nel suo cartellone, come il greco Lanthimos con il suo Lobster, e Valerie Donzelli con Marguerite e Julien, anche se entrambi questi cineasti sono già stati sulla Croisette, e dunque la loro scelta ha seguito quella successione abbastanza comune di passare dalle ’sezioni parallele’ al concorso. Certo è che Frémaux molto ha sbagliato sulla selezione francese nell’ansia di un cinema impegnato, attento al sociale e di star ma anche in quella dimensione più privata a cui rimandano certi film – vedi Mon roi di Maiwenn. Film come La loi du marché o Dheepan della realtà non danno che «traduzioni» maldestre o confortanti e tranquillizzanti. Pensiamo ancora a Le mille e una notte, a come Gomes costruisce il suo viaggio in Portogallo nei tempi della Troika e delle banche che hanno soffocato economia e società del suo Paese per due anni, tra il 2013 e il 2014 gettandolo nella miseria mescolando invenzioni fantastiche e realtà quotidiana, miti, geni delle lampade, streghe e creature divine agli operai disoccupati, alla vita nei casermoni di periferie desolate, all’emarginazione. La realtà non come è ma messa in scena dunque più forte nella sua evidenza.

Le mille e una notte sono dedicate a Manoel de Oliveira, e ieri c’era anche Gomes a quello che è stato uno degli avvenimenti del Festival, la proiezione – all’interno di Cannes Classic, peccato con nessuna replica – del film inedito del centenario e grandissimo regista portoghese scomparso da poco. Visita ou memorias e confissoes – che speriamo sarà diffuso in Italia – è un film magnifico e commuovente non solo perché De Oliveira è morto ma soprattutto per la sincerità pudica e delicata con cui il regista ci conduce nel suo universo poetico. Girato nel 1982, con le parole di Augustina Bessa Luis che accompagnano le immagini, come ci informano i titoli di testa recitati con voce off dalla stesso De Oliveira, doveva rimanere invisibile per volontà dello stesso regista fino alla sua morte. Lo definiva un «film testamento» anche se da quella data alla sua morte De Oliveira ha continuato a girare film – anzi mentre lo realizza sta scrivendo la sceneggiatura di No, o la folle gloria del comando. Cosa è dunque questa «Visita» tra memoria e confessioni? De Oliveira gira il film prima di abbandonare la casa dove ha vissuto quarant’anni, dove come ci dice sono nati i suoi figli, i suoi nipoti, e dove ha scritto i suoi film. L’ha dovuta vendere per pagare i debiti, sembra assurdo che un cineasta già allora così conosciuto nel mondo non trovasse sostegno dal suo Paese ma non si deve dimenticare che per lungo tempo i film di de Oliveira vennero osteggiati (persino disprezzati) in Portogallo. Ecco che allora, prima di chiudersi alle spalle per sempre la porta di quelle stanze, le ripercorre insieme allo spettatore dall’esterno all’interno sovrapponendo alla sua presenza quella di due voci misteriose, una coppia che non vedremo mai, solo due ombre alla fine, e che ai racconti del regista alterna altre parole, l’osservazione di dettagli fantastici e di misteri nascosti.

Il giardino, il pino, la magnolia, la palma e poi le stanze, il tavolo da pranzo, il piccolo scrittoio dove de Oliveira ha lavorato alle sue sceneggiature, le foto dei figli, dei nipoti, di sè stesso e della moglie, Maria Isabel. Cosa significa vivere tanti anni insieme a un regista come De Oliveira? le viene chiesto nel giardino mentre sta raccogliendo i fiori. E lei racconta di come lo ha aiutato nei suoi film, di come abbiano condiviso ogni difficoltà: è soprattutto una questione di comprensione e di abnegazione. E a proposito di donne De Oliveira confessa che a attrarlo sono quelle dal fascino pericoloso, come i personaggi che vivono nei suoi film, e che ne sono le figure chiave. Ma la donna, la moglie, deve essere pura, la verginità esercita su di lui un grande fascino – ancora una «confessione» – pure se solo in gioventù. Dopo, in vecchiaia, diventa un segno di cedimento a meno che non sia frutto di una scelta di castità. Ogni stanza, ogni oggetto che il regista prende in mano in questa sua ultima «carrellata» nella casa spalanca un mondo. Le storie familiari, della giovinezza, di un ragazzo bello, che ha studiato dai gesuiti e alla fabbrica del padre a cui era destinato, predilige un’altra fabbrica, quella del cinema. Veduta Lumiére?
La moglie sorride, bellissima e ragazza nelle foto, il film in bianco e nero dell’infanzia dei suoi figli sfuma nei colori di quella dei nipoti.

Memorie, appunto. Ma quello che potrebbe essere un film di famiglia, sulle tracce dei sentimenti e dei vissuti che abitano un luogo – cosa significa «abitare» se non riempire lo spazio quotidiano della propria vita e ritrovarne le tracce proustianamente nei dettagli dall’apparenza più semplice? – diviene una cartografia molto privata anch’essa dei luoghi del suo cinema, quasi che de Oliveira ne volesse consegnare i segreti profondi di quelli passati e di quelli a venire. In questo senso, un film-testamento che nelle riflessioni di questa passeggiata, e nell’invenzione fantastica degli spiriti che dalla sua presenza si fanno sorprendere ci conduce nel legame indissolubile tra il suo essere al mondo e le sue immagini. «Il cinema è la mia passione, a questo ho sacrificato tutto» dice a un certo punto il regista. E quella casa-mondo ne racchiude i movimenti, le linee, le variazioni, è essa stessa un’invenzione in cui ognuno di quei segni diviene un attraversamento della sua creazione. Come il ricordo di quando la polizia di Salazar era venuto a cercarlo e lui temeva di esse arrestato, che sullo schermo prende la forma quasi di un noir «enigmatico». Nell’universo di de Oliveira tutto è narrazione anche la realtà che non può essere così come è ma vive attraverso la sia trasfigurazione fantastica. Che è memoria privatissima e confessione ancora più intima, ma lì nell’origine i fili volano verso nuove variazioni. Che straordinaria lezione di cinema per tutti i tempi.