Sarà per le nuove sensibilità ambientaliste, sarà per le ritrovate consapevolezze nutrizionali, sarà per l’agonica crisi dei modelli industriali, sarà perché siamo tutti stremati da stili di vita nevrotici ed estenuanti. Sarà non si sa bene per cos’altro ancora, ma sta diventando senso comune l’idea un ritorno alla terra. Terra madre e matrigna, che dona e che danna. Rivincita della natura sull’eccesso trasformativo. Retaggio edificante di culture passatiste. Fascino del pensiero economico decrescente. O, più linearmente, un’opportunità produttiva e occupazionale, oltreché un antidoto allo sciagurato consumo di suolo che deforma e devasta.

L’agricoltura, insomma. Il settore primario della dottrina economica. Primario ma anche arcaico, quasi ancestrale. Eppure modernissimo. Contemporaneo e, soprattutto, metropolitano. È infatti nelle città che cresce maggiormente l’esigenza di destinare a usi agricoli le residue superfici libere o riattivare campagne nel tempo abbandonate. Perfino di utilizzare giardinetti, terrazze e balconi come orti domestici. Non tanto sulla scia un po’ modaiola della signora Michelle, quanto per assicurarsi qualche zucchina in più, o disporre di quel mazzetto di basilico che in cucina serve sempre.

È ormai diffuso, questo desiderio di agricoltura. Figlio di un bisogno economico e di una cultura ideale. Che comincia a prendere forme anche politiche: ragazzi e ragazze che si riuniscono in cooperative e accendono vertenze con le amministrazioni locali. Chiedono che le terre pubbliche in disuso vengano affittate a canoni sociali, per poter essere riavviate in produzione, risanate e ricoltivate. Da qualche parte, in Umbria, in Toscana, in Liguria, riescono a ottenerlo, almeno parzialmente. Ma l’ostacolo principale è rappresentato dai provvedimenti governativi che, al contrario, impongono la vendita del patrimonio fondiario: esattamente come succede per quello immobiliare, caserme, stabilimenti, vecchi ospedali, scuole in disuso, ecc.

Lo scontro è dunque di politica economica. Tra un’impronta liberista che sta progressivamente saccheggiando le risorse pubbliche (per trasferirle al privato) e un movimento di salvaguardia che difende le campagne come beni comuni (per destinarle verso usi sociali). È sulla base di questo conflitto che un po’ in tutta Italia si diffondono esperienza di occupazione delle terre: si riattivano coltivazioni e produzioni per evitare che vengano svendute, e dunque riconvertite per destinazioni improprie o dannose.

Uno dei teatri più vivaci di questo conflitto è proprio la capitale. Roma è il Comune più campagnolo d’Italia: poco meno della metà della sua superficie è destinato all’agricoltura, coltivato tuttavia solo in piccola parte. Anche qui, l’orientamento amministrativo è quello di alienare i fondi in disuso. Ma finora, grazie all’opposizione di cooperative e movimenti (ma anche del sindacato e di alcune confederazioni contadine), la svendita è stata fermata. Anzi, il Comune di Roma ha l’estate scorsa affidato alcune terre a chi l’aveva in precedenza occupate. Una piccola sperimentazione, ma sicuramente positiva. Tuttavia, il grosso dell’agro romano (e laziale) corre ancora il rischio di essere alienato.

Eppure, proprio a Roma, due lontane esperienze di occupazione hanno dimostrato che è possibile (oltreché giusto) realizzare progetti di sviluppo agricolo sostenibili: per la qualità della produzione e per la gestione economica. Stiamo parlando delle cooperative Nuova agricoltura e Cobragor, ormai due grandi realtà agricole che si misurano agevolmente con il mercato, distribuiscono reddito adeguato ai soci e, in più, svolgono attività di sostegno sociale e formativo.

A Roma c’è una gigantesca tenuta agricola, a nord della città. Si chiama Castel di Guido: spazia tra pascoli e tombe etrusche, piantagioni e insediamenti medioevali. Sono duemila meravigliosi ettari, di proprietà della Regione Lazio ma in gestione al Comune di Roma. Ebbene, questa fantastica risorsa è sostanzialmente inutilizzata, coltivata solo in piccolissima parte e sfruttata per una quota irrisoria rispetto a quanto potrebbe. Con il suo potenziale produttivo si sfamerebbero ospedali e scuole, oltreché coltivare e trasformare prodotti di pregio che potrebbero competere a livello internazionale. Eppure è lì, gestita sciattamente, senza passione e, soprattutto, a un bassissimo regime. Forse perché l’intenzione è quella di farla ulteriormente deperire e infine svenderla?
Pensate se invece su quella sterminata campagna si facesse un bando per affidarla ai tanti che sarebbero disponibili a rilanciarla. C’è da stare sicuri che, nell’arco di qualche tempo, assisteremmo a una straordinaria rinascita ambientale e produttiva di un bene che resterebbe comunque pubblico. Anzi, comune.