È da poco calato il sole, la giornata di lavoro nei campi è finita e la famiglia di Farraj si riunisce intorno alla televisione, ma la corrente salta e la casa resta immersa nel buio. Siamo nei pressi di Luxor, in Egitto, in un villaggio della valle del Nilo. Anna Roussillon, regista francese, ha conosciuto Farraj nel 2009 e ha deciso di raccontare attraverso di lui e la sua famiglia la provincia contadina egiziana: un progetto che ha inizio nei primi giorni del gennaio 2011.
Tornata in Francia dopo le prime riprese «per scrivere un progetto dettagliato e trovare dei finanziamenti» Roussillon guarda il telegiornale allibita: al Cairo un mare di persone si è riversato nelle strade e in particolare a piazza Tahrir. È iniziata la rivoluzione, e lei non è lì per filmarla. Invece che precipitarsi nella capitale, però, la regista torna da Farraj, e con il suo documentario Je suis le peuple elegge la famiglia di contadini e il loro villaggio a luogo da cui osservare i sommovimenti politici che stanno cambiando il volto dell’Egitto. Il film ruota così intorno a un evento mancato e a un centro lontano, Il Cairo, dove si consumano le lotte, si depongono i dittatori e ne emergono presto di nuovi.

Attraverso lo sguardo di Farraj, Je suis le peuple costruisce però una testimonianza molto più profonda di quelle provenienti dallo stesso cuore di piazza Tahrir. All’inizio il protagonista è scettico nei confronti dei manifestanti, non è a suo agio a parlare di politica, ma poi accade l’impensabile: il dittatore viene deposto, processato, si indicono libere elezioni. Il contadino, con un passato di studi di legge, comincia a manifestare i suoi pensieri: «se voto per Shafiq, un altro militare, potrebbe diventare un tiranno perché non c’è una costituzione che definisca i poteri presidenziali», riflette, manifestando sua preferenza per Morsi. Per andare a votare indossa gli abiti buoni della preghiera, e poi mostra raggiante il dito sporco d’inchiostro che prova la sua partecipazione alle elezioni: «È la prima volta che la mia voce ha contato qualcosa». La moglie, seduta in mezzo al campo, rimane scettica: «vedremo se la terra resta asciutta o se verrà inghiottita dal mare». Presto, infatti, iniziano i razionamenti: nel villaggio manca il gas per fare il pane, piazza Tahrir si riempie di nuovo, stavolta contro il neopresidente Morsi.

Farraj è amareggiato, e rispunta la paura: ammonisce l’amico che parla di politica con lui di non fare certi discorsi davanti alla telecamera. Pochi mesi dopo, in tv, il capo dell’esercito Al-Sisi, che ha appena deposto Morsi con un colpo di stato, chiede al popolo egiziano una manifestazione di sostegno e gli dichiara la sua fedeltà. Ma a casa di Farraj la luce salta e il buio inghiotte la stanza.   

anna roussillon

Il progetto del documentario è cambiato in corso d’opera.
All’inizio non doveva essere un film politico. Ma quando è scoppiata la rivoluzione per me era impossibile continuare il piano iniziale: mi sono chiesta cosa fare, se andare a Tahrir e gettarmi nel cuore dell’evento. Ma l’immagine della piazza era già ovunque, per cui non vedevo il motivo di aggiungere la mia telecamera alle centinaia che erano già lì. Ho pensato che sarebbe stato interessante interrogarsi su cosa provasse una persona come Farraj: quali saranno le sue speranze, che spiegazioni si darà di questo processo politico?

Lo sguardo dalla provincia è stato più rivelatore di tanti racconti dal cuore della rivoluzione.
Per me era una necessità scrivere la storia di quegli eventi, capire cosa è accaduto in Piazza Tahrir. Ma era anche fondamentale capire cosa stava succedendo altrove, nelle campagne. La scelta determinante, però, è stata la durata delle riprese: due anni e mezzo, una durata molto diversa da quella dei media, tutta concentrata sull’evento principale. Il lasso di tempo che è trascorso è ciò che mi ha consentito di andare in profondità e di seguire un processo complessissimo: la nascita e lo strutturarsi di nuovi pensieri, di una nuova cultura politica. Non solo i primi entusiasmi o i primi dibattiti.

Nel corso del film si va dallo scetticismo alla felicità alla disillusione finale. Lei cosa pensava di quello che stava succedendo?
Quando sono tornata in Egitto nel marzo 2011 è stata la prima volta che io e Farraj abbiamo parlato di politica, e la pensavamo molto diversamente. Lui aveva ancora un modo di pensare legato all’era di Mubarak: diceva che le manifestazioni erano un complotto degli americani o di Israele. Io invece sostenevo il contrario, ero entusiasta di quello che stava succedendo. Così nel corso delle riprese ho cercato di costruire uno spazio di dibattito condiviso in cui io e Farraj ci potessimo confrontare ed esprimere le nostre idee, anche se diverse.

Cosa pensa Farraj della situazione attuale dell’Egitto?
Molti spettatori, quando Farraj è stato in Francia, gli facevano la stessa domanda. Ma lui non ne vuole più parlare. L’apertura al confronto che c’è nel film, ed era presente anche nella società egiziana durante quei due anni, è scomparsa. Parlare di politica è diventato molto pericoloso, come lo era ai tempi di Mubarak.