Di questi tempi, la baraccopoli di San Ferdinando avrebbe dovuto essere vuota o quasi. La stagione degli agrumi è finita da tempo e altre colture attendono la migrazione stagionale degli africani: ortaggi e pomodori dalla Piana del Sele alla Terra di Lavoro casertana o alle campagne del foggiano. Invece sono ancora tutti lì. Molti in attesa del permesso di soggiorno prima di muoversi, altri perché dopo anni di sfruttamento non ce la fanno più e preferiscono accontentarsi di nulla nei tuguri della zona industriale della Piana di Gioia Tauro, a volte usurati dall’alcol o da chissà cos’altro. Ne avevamo incontrati alcuni qualche anno fa (e il manifesto titolò in prima pagina L’inferno di Rosarno). Abbiamo rivisto le stesse facce, sempre più rassegnate e incattivite, pochi giorni orsono.

Da allora, la bidonville si è ingrandita: attorno alle tende montate dal ministero dell’Interno nel 2010, ormai luride e sbrindellate, proliferano le capanne improvvisate degli ultimi arrivati, mentre a poca distanza un capannone abbandonato è stato occupato e trasformato in dormitorio. Gli immigrati si sono autorganizzati e San Ferdinando ha assunto le sembianze di una sorta di favela autogestita: ci sono bancarelle che vendono indumenti, il bar dove sarebbe scoppiata la lite durante la quale il carabiniere avrebbe sparato, una macelleria e pure una moschea.

I dati raccolti tra novembre e marzo dai Medici per i diritti umani, che hanno curato gli immigrati con una clinica mobile, fotografano una situazione disperata: nella baraccopoli di San Ferdinando vivono duemila persone, quasi tutti under 35, mentre altre centinaia abitano in casolari abbandonati e fatiscenti nelle campagne della Piana, senza servizi igienici, acqua ed elettricità. Il 52 per cento di loro non ha la tessera sanitaria e le patologie più comuni sono disturbi gastrointestinali (23 per cento), sindromi delle vie respiratorie (22 per cento) e problemi muscolo-scheletrici (13 per cento). Inoltre, l’86 per cento dei lavoratori africani non ha un contratto e la retribuzione media è di 25 euro al giorno, cinque dei quali finiscono al caporale che li ha reclutati. La deflazione sta facendo il resto: un chilo di mandarini viene pagato dai produttori ormai 18 centesimi al chilo, un prezzo non sufficiente a garantire una retribuzione del lavoro minimamente equa.

Nella tendopoli di Rosarno l’incidente era dietro l’angolo. Appena qualche settimana fa, solo per caso sei ragazzi non sono saltati per aria insieme alla loro tenda, distrutta dallo scoppio di una bombola del gas. Non si sono fermate neppure le aggressioni: nei giorni del sesto anniversario della rivolta, a gennaio, sono stati presi di mira gli africani che rientravano dal lavoro a piedi o in bicicletta. Gli antirazzisti locali, che stanno lavorando a una legge regionale per agevolare gli affitti di case ai migranti in modo da poter sgomberare la baraccopoli, sono convinti che “c’è qualcuno che sta fomentando un’altra rivolta”. Difficile capire chi e perché sta soffiando sul fuoco. Quel che è certo è che, dopo la rivolta del 2010, nel cono d’ombra della tendopoli di San Ferdinando tutto è tornato come prima, e non risulta che nessuno dei tre ministri dell’Interno che si sono susseguiti nel frattempo (Roberto Maroni, Anna Maria Cancellieri e Angelino Alfano) abbia fatto alcunché per evitare una nuova degenerazione. Al contrario, la situazione è perfino peggiorata. Per questo che un africano sia stato freddato da un carabiniere, una mattina di fine primavera, non può stupire. La notizia suona come la cronaca di una morte annunciata.