Spira aria di rivolta nelle pagine che Sholem Asch ha dedicato alla figura enigmatica di Paolo di Tarso. Il libro, che ha per titolo L’apostolo (Castelvecchi, ottima traduzione di Simone Perugini, pp. 680, euro 20,00), è avvincente come una biografia, suggestivo come un romanzo. Ma è anche un’opera di teologia politica che legge il messianismo nel punto di intersezione fra mondo ebraico e mondo cristiano. Voce nota e apprezzata della letteratura yiddish, Asch aveva lasciato la Polonia alla fine degli anni trenta per trasferirsi negli Stati Uniti dove L’apostolo uscì nel 1943 solo nella traduzione inglese. Che senso poteva avere, d’altronde, raccontare la storia di Paolo di Tarso nella lingua parlata dagli ebrei dell’Europa orientale? E per di più nel 1943, quando la maggior parte di loro era condannata allo sterminio?

Negli ambienti ebraici la posizione di Asch era divenuta sempre più scomoda. Numerose critiche avevano accolto il suo romanzo Il Nazareno, pubblicato nel 1939. Al di là di un interesse sospetto per il cristianesimo, non si capiva che cosa spingesse Asch a delineare la figura di Gesù di Nazareth ricordando che era ebreo – proprio mentre Hitler istituzionalizzava l’odio e indicava nel popolo ebraico il nemico del Reich.

Sebbene amareggiato, Asch aveva proseguito le sue ricerche dedicandosi all’opera su Paolo. Il suo intento non era certo quello di sbarazzarsi dell’ebraismo. Piuttosto voleva far riemergere la storia di quegli ebrei osservanti che avevano portato nel mondo la speranza messianica. Era convinto che fosse quello il modo per contrastare l’antisemitismo, come ribadì, quando era già troppo tardi, nel saggio del 1945 Un unico destino. Epistola ai cristiani.

In modo non diverso da Jacob Taubes, che aveva pubblicato la sua Escatologia occidentale nel 1939, Asch propone a sua volta una lettura ebraica del cosiddetto cristianesimo delle origini movendosi lungo uno stretto crinale, fra testimonianze storiche, vangeli, testi apocrifi e quella tradizione rabbinica e farisaica in cui era stato educato. La ricerca diventa uno scavo archeologico, a partire dai nomi riportati alla luce nella forma ebraica.

È da Yoshua ben Yosef, il rabbi di Nazareth, che comincia il racconto. Sette settimane erano trascorse dalla sua crocifissione ordinata da Ponzio Pilato. A Gerusalemme accorrevano folle di pellegrini per la festa ebraica di Shavuot. Ma l’atmosfera quell’anno non era gioiosa. Gli ebionìm, i poveri, i senzatetto, i derelitti, non avevano più una guida. Eppure, in quel giorno di pentecoste, nel cortile del Tempio, un gruppo di galilei attirò l’attenzione di tutti. A parlare era Simone, un pescatore di Cafarnao. Diceva che il Messia che tutti aspettavano non era stato sconfitto; era anzi risorto. Perciò bisognava annunciare la salvezza non solo agli ebrei, ma anche ai gentili, in ogni parte del mondo. Tra coloro che lo ascoltavano con severa irritazione c’era Saul figlio di Baruch, un giovane che veniva dalla città di Tarso, in Cilicia. I genitori lo avevano mandato a Gerusalemme per seguire gli insegnamenti del famoso rabbino Gamaliel, il capo dei farisei. Insieme a Saul c’era anche il suo amico e compagno di studi Yoseph bar naba, il primo a convincersi che, come annunciavano i galilei, il Regno dei cieli sarebbe presto cominciato in terra. Ben più impervio fu il cammino di Saul. Da adolescente, chino sulla Torah, sui libri dei salmi e dei profeti, aveva vissuto in mezzo a un oceano di paganesimo. Sapeva il greco e aveva letto le parole dei filosofi che insegnavano la virtù. Ma per le vie di Tarso si imbatteva nella raffinatezza viziosa e nella dissolutezza esasperata. Che il Messia promesso a Israele avrebbe liberato anche tutti gli altri popoli cambiando l’intero ordine del mondo? Ne era certo. Non si unì agli esseni che, organizzati in comuni, abitavano nel deserto; scelse invece di essere nazireo, sottoponendosi al celibato e a una disciplina severa.

Nella descrizione di Asch emergono gli aspetti più inquieti del personaggio. Era «chiuso in se stesso, con le labbra strette e gli occhi puntati verso il suo sogno». E si lasciava andare agli attacchi del morbo indecifrabile che arrivavano imprevisti, quasi per portarlo oltre il suo normale sentire. Il tormento era la cifra della sua esistenza.

Si sentì a casa a Gerusalemme dove, fra le vie tumultuose, si aggiravano ebrei provenienti dai tre continenti. Scoppiavano diverbi e conflitti, mentre si moltiplicavano le sette. Venti di tempesta attraversavano anche i cortili del Tempio. Una rivolta seguiva all’altra, da quando Israele era sotto la spada di Edòm – come veniva chiamato l’Impero romano. Fariseo figlio di farisei, Saul credeva nella resurrezione dei morti. Ma non poteva accettare che il giusto di Galilea fosse il Messia che gli ebrei aspettavano. Non mancavano i segnali di un grande rivolgimento: i gentili chiedevano, sempre più numerosi, di entrare nell’alleanza, perché avevano saputo della liberazione che attendeva Israele. Furono le donne a entrare per prime, battezzate secondo l’antica usanza ebraica. Per gli uomini, però, la circoncisione, insieme ai precetti, costituivano un ostacolo. Che cosa fare allora?

Per Simone i gentili avrebbero avuto parte al mondo a venire solo se si fossero convertiti all’ebraismo. Radicale fino a sfiorare uno zelo quasi fanatico, Saul passò da un estremo all’altro. Fiero persecutore di coloro che si richiamavano al Rabbi di Nazareth, fu certo invece, dopo la visione alle porte di Damasco, che sarebbe bastato che i gentili fossero «circoncisi di cuore». Se il Messia era venuto, allora la legge era compiuta e poteva essere tolta per tutti, per i gentili e per gli ebrei. A Yakov ben Joseph, il primo dei cinque fratelli di Gesù, Asch affida il compito di dire quanto il messaggio di Saul ferisse la coscienza di Israele.

Il racconto si snoda lungo i sentieri percorsi da Paolo per estendere la comunità del Messia alle nazioni, dalla Galazia e dalla Bitinia fino al centro dell’Impero. Perché il Messia era non solo la promessa di Israele, ma la speranza degli ultimi, dei reietti, dei vinti, di coloro che lavoravano nelle fonderie, ingoiati nell’oscurità dei forni, degli schiavi che remavano incatenati nelle stive delle navi, degli stranieri che, abbandonati dagli dei e calpestati dagli uomini, in nessun luogo trovavano rifugio. In quelle tenebre Saul diffuse la notizia della liberazione, in quel mondo sotterraneo sparse la voce che le porte della casa di Dio si aprivano ai giusti. Mentre portava le nazioni al monte di Sion, Paolo non si considerava un trasgressore. Le sue lettere per i gentili erano paragonabili alle profezie indirizzate al popolo ebraico. Sebbene non avesse mai smesso di essere ebreo, tuttavia Israele non lo seguì. Asch ne descrive la solitudine mitigata forse solo a Roma, nell’impatto cruento con il potere imperiale, ma anche nell’incontro con Pietro e con le masse di schiavi a cui aveva restituito la speranza.

Quando si seppe della morte dei due apostoli, nel quartiere ebraico di Roma giunse anche la notizia della rivolta a Gerusalemme. «Non sappiamo se la forza di Israele è in grado di spezzare la spada di Edòm» – commentò il vecchio rabbino Sabbatai Zadoc. Parole che per Asch dovevano essere un monito, insieme a quella scena ambientata nelle catacombe dove i pretoriani non distinguevano fra gli ebrei e i messianici o cristiani, perché «nessuno sapeva dove finisse l’ebraismo e cominciasse il cristianesimo».