Nel tremore del tempo, la nuova raccolta di poesie di Filippo Ravizza (puntoacapo editrice, pp. 54, euro 12) sembra contenere, anche per ellissi, un’evocazione dei timori e tremori di cui parlava Kierkegaard nel suo celebre testo: il titolo di Ravizza fa espressamente riferimento solo al tremore, in effetti, ma il timore pervade il libro, enunciato nei versi in cui l’autore dà atto altrettanto espressamente della propria lotta contro il «timore del tempo», appunto. È il tempo, insomma, a rappresentare l’alterità davanti alla quale l’uomo sperimenta radicalmente la propria fragilità: è il tempo nel suo scorrere disperante, nella sua voracità divoratrice non solo di attimi ma della storia stessa, nel suo fluire al di là delle singole esistenze – e cioè nel succedersi delle stagioni e delle generazioni, una dopo l’altra.

L’ANDAMENTO dei versi di Ravizza è incessante, battente e veloce quasi come questo tempo che sgomenta. Quasi senza punteggiatura i versi si rincorrono, si inseguono, si riprendono. Alcune parole tornano, si ripetono, si ritrovano («come un mantra o una cantilena dolce», scrive Ivan Fedeli nella sua nota sulla quarta di copertina). Ed è anche tutto questo ritmo a produrre come un senso di mancanza: come se anche le parole, nel loro incedere, cercassero scampo.

HA RAGIONE Giuliana Nuvoli, nella sua postfazione: il tremore davanti a questo Assoluto è quello dell’ansia, della paura. È il tremore del corpo che reagisce incontrollato quando assume consapevolezza del suo essere niente o quasi niente, come conferma ad esempio una poesia quale Opaca barriera: «Tutto è qui tutto è ancora qui/opaca barriera lucida traslucida/gommosa parete ove trascorre e/chiama la spinosa verità del niente/come un sonnambulo camminare/scrivere mangiare sapendo che nulla/esiste veramente».

Il tempo scorre, passa, si fa storia; e noi ne siamo solo una «frattura». Ecco: è questo a farci sentire niente o quasi niente, a suscitare a tratti perfino disperazione. Ma solo a tratti, perché in realtà una speranza Ravizza sembra trovarla nel puro e semplice fatto che «esistere è questo esistere». Anche Gianmarco Gaspari, nella prefazione, si sofferma su quel verso (dalla poesia La bellezza acerba ma feroce).

È un verso cruciale, perché vincere il «timore del tempo», in fondo, non è altro che questo: accettare i nostri limiti, sentire «l’indicibile bellezza di tutto ciò/che per poco forse/esiste finché esisti tu» e fare di questo il punto di equilibrio fra noi e ciò che sta al di fuori di noi.

TRASFORMARE il tempo che ci è dato, infine, in una memoria dolce, che possa sempre accompagnarci e carezzarci. Proprio «carezza», non a caso, è fra tutte la parola più ricorrente della raccolta di Filippo Ravizza: solo il tocco di una carezza, leggiamo in un verso forte come una rivelazione, potrà illuminare «la finitudine che sei,/il volto che hai».