Se c’è una cosa che Paolo Fabbri ha l’abilità e il merito di saper mostrare in ogni occasione, è che la semiotica, senza in nulla derogare ai propri metodi di analisi, di commento, di scoperta e di interpretazione (metodi indirizzati al rispetto di protocolli sperimentali e criteri di verifica che in qualche occasione costringono ad una certa legnosità), può anche avere un modo fluido e narrativo, gradevole e coinvolgente di comunicare. Chi lo ha sentito parlare in pubblico non avrà potuto fare a meno di notare la grazia argomentativa e affabulatoria che contraddistingue il suo ragionare.

Le parole si disperdono, ma del loro tono rimane più di «un non so che» nelle 44 brevi scritture raccolte da Tiziana Migliore in Paolo Fabbri, Vedere ad arte. Iconico e icastico (Mimesis, pp.488, euro 32). Un volume che, non solo idealmente, si affianca a una raccolta di conversazioni che aveva l’intenzione di documentare la densa oralità del pensatore e maestro (L’efficacia semiotica, a cura di G. Marrone, 2017, Mimesis).

COME IL TITOLO promette, Vedere ad arte è fatto di incursioni nel mondo delle arti contemporanee. Nei vari formati dell’articolo, del saggio o della prefazione si trovano diverse occasioni per condividere un vario e lungo cammino di incontri e visioni, fatte per lo più negli ultimi vent’anni e ordinate, come spiega la curatrice nella postfazione, seguendo «problemi e concetti dell’opera che Fabbri ha individuato in maniera ricorrente». Si parla di spazialità, di schermi, di metamorfosi, di stili, di senso e di sensi, e soprattutto di incroci tra mezzi e persone, tra linguaggi e cose. E si incontrano Klee, Kruger, Kosuth e Kounellis; Parmiggiani, Pomodoro, Pistoletto e i «paroliberi» futuristi; Barucchello, Barney, Boltansky (con cui Fabbri dialoga) e Balestrini; e tantissimi altri artisti, da Adami, Mulas, De Chirico, Ghirri, Mattei, Cattelan, Ruffo, Nunzio, Toderi, Mauri, Viola, Tadini, Zorio, Jaar, Lebel, Meneghetti, Anceschi, Fabro, Mattiacci, Rotella, Nauman, Studio Azzurro, Fellini, Castellani, Savinio, giù fino ai surrealisti ed Artaud. Non dovrebbe mancarne nessuno all’appello.

NATURALMENTE i protagonisti non sono loro, gli artisti; piuttosto è il segno l’unico grande performer di queste pagine, al quale anch’essi pagarono il loro tributo con le loro opere, e che Fabbri rincorre e tocca, smaschera e veste. Le immagini e gli oggetti, le emozioni e le idee, sotto il suo sguardo e nelle sue parole non sembrano volersi fissare in una forma, in una griglia, in una struttura. Che magari ci sarà pure, individuata e perspicua. Più potente è l’effetto opposto, quello per cui l’oggetto, l’opera, insomma la cosa che si guarda e si dice, funziona come una calamita, o meglio un polo magnetico che tramite il potere di attrazione e repulsione riesca (meglio) a definirsi. Da questo forse dipende la sorprendente varietà dei soggetti con i quali volta per volta viene verificata la tenuta, la durata e la pervasività del segno.

In uno degli scritti (sin qui inedito) dedicati all’educazione che aprono la raccolta, Fabbri dice: «Insegnare è un affare di segni e più precisamente un teatro della parola», tanto per ricordare quanto la dimensione orale significa presenza e prossimità. Non è questione di esserci a tutti i costi, bensì comprendere che la «didattica è il momento dei lumi, la ricerca è quello dei barlumi, in cui i contenuti si costruiscono insieme col suo connoisseur».

COSÌ LA SCRITTURA non è un momento accessorio ma non è neppure la fine del mondo; ed è bene che ogni tanto non si faccia l’ossessione di sistemare cose che il lettore può sistemare da sé, magari divertendosi.