Tra i tanti libri che hanno raccontato gli anni ’70 e il movimento del ‘77, il fluviale e lirico Gli anni giovani di Gianni D’Elia, è quello con il titolo che condensa più di altri un conio generazionale, perché quelli furono veramente gli ultimi anni dove un movimento politico e culturale di giovani, in Italia tenne in vita una sorta di sovversione quotidiana e permanente, scontrandosi con i poteri consolidati, anche con quelli della sinistra storica e del sindacato, vedendone in anticipo le derive.

COSE D’altri tempi, per citare anche il libro di racconti di Stefano Tassinari, scrittore che fu uno dei protagonisti di quella stagione. Nelle piazze, nelle scuole, dentro le realtà di quartiere delle metropoli, a Roma, Milano, Padova e Bologna, che ne furono i centri propulsivi, sedi di collettivi rivoluzionari, riviste, radio libere, sprigionarono quelle straordinarie energie, ma anche nelle periferie più sperdute, persino nei paesi più remoti del sud gli echi di quei tam tam provocarono in molti un fuoco di rivolta, con dinamiche provinciali ma non con meno conflitti, spostati magari in ambiti più sotterranei, o istintivi, così come accade nel romanzo di Giovanni Accardo, Il diavolo d’estate (Ronzani, pp. 262, euro 16.50). Siamo alla coda degli anni settanta nell’agrigentino, due mesi prima l’omicidio Moro, in un’estate caldissima e in una Sicilia che ancora consuma il suo debito ancestrale con la civiltà contadina, le sue superstizioni e magie, e un gruppo di ragazzi vivono la loro stagione di formazione, esistenziale, storica e sociale.

TRA DI LORO Salvatore, l’io narrante, quello più attratto dalla politica, che sogna di essere posseduto da un demone, sospeso tra le credenze di un mondo arcaico e i sogni di un universo nuovo di cui cerca di intercettare i segnali. Lui e i suoi amici danno vita a un luogo di aggregazione, una discoteca, «un tentativo di cambiare qualcosa», nei loro pensieri, un modo per rompere l’apatia e il conformismo, la rassegnazione, osteggiati dai poteri fermi locali, dalla mafia e i suoi intrecci con i notabili della Democrazia Cristiana, la mafia degli appalti e dei trasporti, quella del cemento. Ma questi sfiorati siciliani, danno corpo a un romanzo di formazione provinciale e corale particolarissimo, in una specie di mondo altro, lontanissimo dai centri, dominato da pulsioni paniche, dove l’agone delle rivolte arriva come un’eco vissuto istintivamente nella sfera emotiva. Accardo usa una lingua elaborata e ricca, quasi classica, arricchendola con espressioni del parlato dialettale, che ben aderisce alle dinamiche di questo microcosmo angusto, dove si consuma la tragedia che anima e innerva la tramatura, e si scioglie nel finale liberando il suo potenziale angoscioso.

SALVATORE (Totò), rimasto presto orfano, vive come i suoi amici Ignazio, Siso e Michele la claustrofobia del piccolo paese che ha pagato un conto altissimo all’emigrazione, suo padre è morto in Belgio, in miniera, frequenta la sezione del Pci e il militante Vito, legge Lettere dal carcere di Antonio Gramsci, detesta i ricchi notabili, come il vecchio Montalbano, che definisce «il padrone di tutto», ha una storia di amorosi sensi con una sarta contadina, e s’incontra con Andrea, che studia a Bologna, e gli parla dei cortei, delle manifestazioni, di un romanzo, Sulla strada di Jack Kerouac, gli fa conoscere un cantante che fu la colonna sonora di quegli anni e di quella generazione di ribelli, Claudio Lolli. E Aspettando Godot, sembra davvero la canzone giusta per questo romanzo, che come tutti i gialli sociali ha il suo colpo di scena, ma anche un morto, un assassino e un omicidio tragico, una sorta di linea d’ombra che il protagonista dovrà attraversare per entrare nel mondo degli adulti.