Datate 1956, le Precisazioni di Luigi Nono sostengono, fra l’altro, che «ogni fissazione di principi e assiomi estetici è vana … la vita si realizza in forma talmente viva, ché il presente è già il passato nel futuro»: si apre con questo testo La nostalgia del futuro («Il Saggiatore», a cura di Angela Ida De Benedictis e Veniero Rizzardi, prefazione di Nuria Schönberg Nono) che aggiunge all’edizione del 2007 una serie di Excursus, interviste, colloqui e conversazioni con vari esponenti del mondo culturale e musicale. Tutte le «isole» tematiche che compongono l’arcipelago del pensiero di Nono sono già presenti nello scritto del ‘56: la reticenza nei confronti di quanto è fisso, stabilizzato/stabilizzante, congelato – Guai ai gelidi mostri è il titolo, preso in prestito da Nietzsche, di un’opera dell’83 dove viene ribadita la necessità di liberare la vita «da ogni forma di costrizione»; il bisogno di abitare la continuità temporale dove si incontrano dialetticamente passato e futuro, dove tutto è in trasformazione, in movimento, in divenire perché solo così si sfugge alle imposizioni categoriali e agli apriorismi ideologici (infatti l’ideologia, sottolinea più volte l’autore, non precede la musica giacché la «rivoluzione è dentro il risultato sonoro», così come il contenuto non si antepone alla forma ma le è consustanziale).

Solo nella continuità è possibile la rottura perché la «sconfinatezza del continuo» abbatte le barriere e infrange ogni forma di separatezza permettendo il fluire, l’esserci della vita nella vita, nel mondo, nei suoni: «non è una questione di compiere degli atti di rottura, ma di ricercare piuttosto altre continuità», altre possibilità di ascolto, altri spazi, altri «pensari».
È una concezione fluida, trasformativa, quella di Luigi Nono, che transita dal tempo allo spazio e al rapporto che esso intrattiene con il suono – la «musica che sto cercando» – sostiene – «è scritta con lo spazio: essa non è mai uguale in qualsiasi spazio, ma lavora con lui».

Ripensare il suono come entità cinetica implica superare le barriere dell’ascolto frontale e monodirezionale di ascendenza borghese che, nel corso dei secoli, si è sclerotizzato nella «forma fissa» e impositiva della sala da concerto: bisognerà piuttosto dislocare, moltiplicare, dinamizzare le fonti sonore per costruire spazi che offrano non una sola possibilità di ascolto, restando invece aperti a tutti gli infiniti possibili; spazio cangiante, in continuo divenire, spazi plurimi. Proprio così, Plurimi, si intitola quella serie di lavori realizzati da Emilio Vedova la cui genesi è, non a caso, databile a ridosso della collaborazione con Nono per la messinscena di Intolleranza 1960, dove l’artista immerge le mani e la mente in quel modo di fare teatro che realizza, appunto, l’«espressione di una nuova concezione di spazio» dove si realizzi l’«inserimento dello spettatore non più passivo»: di questo spazio teatrale descritto da Emilio Vedova in Mia esperienza teatrale del 1964, i Plurimi, con la loro articolazione tentacolare, sembrano essere l’esito naturale, anzi inevitabile.

Stanno su questa stessa scia, le ricerche e le sperimentazioni condotte da Nono sul suono che si colloca alle soglie dell’inudibile (attraverso l’uso parossistico del ppp- pianissimo) e l’«inaudito», giocato su variazioni minime e quasi impercettibili di altezza e volume: ne è un esempio la composizione/omaggio Con Luigi Dallapiccola costruita come uno spazio liquido in cui si alternano «onde che sorgono e altre che spariscono», mentre in Guai ai gelidi mostri i suoni vivono «la continuità di una dimensione in cui non è possibile comprendere, risapere la transizione: dove è silenzio e dove non-silenzio…».

Questo affacciarsi, che è piuttosto un «apparire» in senso fenomenologico, lento, timido, incerto del suono, dove sono inavvertibili tanto l’«attacco» che la provenienza, quasi fosse una «non origine» (a differenza di quei suoni ff- fortissimi dai confini netti, definiti e separati dall’ascoltatore che si impongono all’orecchio nella loro frontalità) costruisce uno spazio avvolgente nel quale ci troviamo immersi e «gettati» conferendoci quel senso di «essere nel suono, e non iniziarlo a percepire, sentirsi parte dello spazio, suonare», risuonare «in» e «con» esso, abitarlo, scoprirlo attraverso un’erranza che dischiude nuove possibilità di ascolto.

Questo bisogno di movimento, di trasformazione continua e di un vagabondare da Wanderer nietzschiano, nel «mare sul quale si va inventando, scoprendo la rotta», trova nel Prometeo la sua più compiuta estrinsecazione: composto a partire da una serie di testi preparati da Massimo Cacciari, il progetto scenico-architettonico affidato a Renzo Piano si articola in uno spazio concepito come tante «isole, in continua trasformazione» che inducono lo spettatore al transito, alla divagazione e all’erranza intesa nella duplice accezione di movimento incerto e di errore.

Non a caso, si intitola La necessità dell’errore uno dei saggi più belli della raccolta, dove il compositore veneziano ribadisce il bisogno di «risvegliare l’orecchio» per aprirlo a nuove e inaudite sonorità, ad altre possibilità di ascolto prive dell’autoreferenzialismo accademico, individuando nell’erranza le sue proprietà trasformative, la via privilegiata e, appunto, necessaria, per la scoperta di «altri spazi, altri cieli, altri sentimenti».