Il mondo di sopra è perduto, una catastrofe lo ha spazzato via. E il vivaio per nuove esistenze è sottoterra, in laboratori scuri e spogli. Dunia e Alia sono (non a caso) due donne che si interrogano su come ricominciare, da dove e se ha senso la prospettiva di ricostruire un mondo sulle macerie dell’altro. Meglio, forse, abitare un «altrove». Alia è frutto di un recupero di dna, ma trova le rovine di Betlemme (città della superficie) venefiche. Dunia, anziana, morente, guarda indietro, ha nostalgia del passato e della sua casa. Il film In vitro, che Larissa Sansour ha diretto insieme al marito Soren Lind, apre sugli scenari di una post apocalisse per raccontare anche la Palestina d’archivio, la storia di una prigione temporale che si fa psicologica. Il padiglione della Danimarca che ospita l’artista e filmmaker palestinese accoglie il progetto Heirloom, uno dei più coerenti della Biennale 2019, offrendo una «stanza» della meditazione con il nero Monument for Lost Time, la proiezione del film a due canali, la conservazione della memoria nei lacerti architettonici (il pavimento) che rimandano alla villa ottomana di Betlemme dove è stata girata la storia fantascientifica.

L’interazione tra finzione e realtà è un tema ricorrente nelle sue opere. Possono gli scenari immersi tra passato e futuro descrivere anche le distopie della nostra società?
L’interazione tra finzione e realtà gioca un ruolo importante nella mia indagine riguardo le fondamenta dell’identità nazionale, tema alla radice della mia ricerca. La narrazione si avvale di fonti diverse – storiche, religiose, mitiche, immaginarie. Tendo a fonderle per generare trame alternative, riflettendo sulla malleabilità dell’identità nazionale e sulle sue implicazioni, non solo rispetto a un discorso politico, ma anche per una maggiore comprensione storica. I lavori di fantascienza – come quelli che porto a Venezia – sono una riflessione sul presente che si ramifica nel passato. C’è sempre attivo un senso di nostalgia che investe il futuro, mentre gli scenari futuribili sono spesso un pretesto per speculare sui correnti temi socio-politici. Preparare il palcoscenico del futuro rende liberi, seleziona i tuoi argomenti di interesse senza dover rendere conto della totalità dei problemi, nell’urgenza del qui e ora. Attraverso la fantascienza, ci si può allontanare dai limiti del dialogo contemporaneo, e, a sua volta, quel distacco permette di elaborare con maggiore disinvoltura le questioni attuali.

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La fantascienza non è solo un mondo alternativo, ma può indicare qualcosa in merito a memoria, identità, storia. In questo senso, cosa ci racconta il suo film?
Il film è intitolato In vitro, in riferimento alla coltivazione di qualcosa che avviene al di fuori dell’originale habitat. La trama riduce l’identità nazionale e culturale al suo nucleo proprio per sradicare il contesto in cui solitamente si manifesta. Esplora quel che rimane quando ciò che associamo all’appartenenza è svanito, i luoghi, la geografia, l’architettura, la terra, i raccolti, le abitudini, le persone care. Cosa scatta in noi? Nostalgia per tutto ciò che non c’è più? O esiste qualcos’altro nella nostra condizione – ormai così minimale – che ci identifica ancora come noi stessi?

Betlemme dopo un disastro ecologico, che figura come set nella sua opera, è anche una metafora delle condizioni attuali del nostro pianeta?
Il film è ambientato alcuni decenni dopo un’eco-apocalisse, scardina l’idea dell’appartenenza alla luce di un trauma subito, in generale. La psiche palestinese è definita dal disastro. Sono cresciuta a Betlemme sotto l’occupazione israeliana. Nonostante decenni di negoziati di pace, questa condizione non è mai cambiata. Tale esperienza ha un forte impatto psicologico per chiunque la viva, al pari di una qualsiasi minaccia esistenziale. Per allargare i quadro, condividiamo tutti il rischio imminente di un’apocalisse climatica, cosa che rende le sfide esistenziali molto, proprio come conflitti locali e fattori economici globali stanno causando una crisi esistenziale dei rifugiati che ha conseguenze per tutti noi.

Larissa Sansour

«Nel mio lavoro, la negoziazione di marcatori di identità è un obiettivo chiave». Può spiegare meglio questo concetto così rilevante per le sue installazioni artistiche?
Sono molto interessata a ciò che fa riconoscere un popolo come tale, a quel che rimane quando le persone sono minacciate nei loro beni, terra, eredità. Che cosa succede a un immaginario nazionale quando le sue radici sono scosse? Che iconografia o simbolismo viene coltivato e a cosa ci si aggrappa quando tutto ciò che abbiamo pensato come nostro ci sembra perduto? Stabilire certezze è un mezzo di sopravvivenza culturale, ma lo è anche la tentazione di un processo riduttivo, che lascia i concetti di eredità e appartenenza alla mercé di qualche metafora e immagine. Così, esplorare le modalità di azione della cultura, la coesione e il funzionamento della rappresentanza nazionale diventa il mio fine.

Quali sono le fonti letterarie da cui ha tratto ispirazione?
All’inizio, la fantascienza non figurava nella mia lista dei desideri, ma presto il suo potenziale ha cominciato ad attrarmi. Le mie fonti di ispirazione provengono principalmente dal mondo del cinema. Registi come Bergman, Tarkovsky e Kubrick hanno avuto un grande impatto sul mio lavoro, sia in termini di visione e dialogo che di immagini ed estetica.

Cosa ha significato essere nata in Palestina e cresciuta in Inghilterra, lontano dal suo paese, in un esilio continuato?
Come dicevo, ho sperimentato in prima persona l’umiliazione e la repressione che l’occupazione militare genera sulle persone. Quando è iniziata la prima intifada, la maggior parte delle scuole della West Bank sono state chiuse e i genitori che potevano mandare i loro figli in collegi all’estero per continuare la loro formazione, l’hanno fatto. Doveva essere una situazione temporanea, ma in Palestina nulla è migliorato negli anni, anzi casomai peggiorato – basti pensare al muro dell’apartheid in Israele. La vita è diventata intollerabile e molti hanno difficoltà a tornare. Ad esempio, io non ho il permesso di entrare a Gerusalemme, città dove sono nata. Tutto ciò è stato importante per le mie ricerche sul concetto di appartenenza . Da allora, ho vissuto in molti luoghi diversi. In principio c’è stata sofferenza, solo ora vedo la mia esperienza come liberatoria. Mi sento a casa in molte parti del mondo e questo è il mio nutrimento.

Alla 58/a Biennale di Venezia, il padiglione danese ha scelto lei nonostante la sua origine palestinese. Crede che le partecipazioni nazionali siano un retaggio di un mondo «antico», non rispondente alle novità della globalizzazione?
Sono stata nominata dalla Danish Art Foundation, è stato un onore. Penso che sia necessario porre l’attenzione sul grande impegno che circola in questa vasta mostra che è la Biennale, dove artisti provenienti da tutto il mondo si riuniscono esibendo le loro proposte. È un evento straordinario, ma ovviamente l’idea di artisti che interpretino le proprie nazioni è problematica. Si avverte il contrasto con i nostri tempi, soprattutto in un contesto in cui i concetti sono molto centrali rispetto a qualsiasi altra affiliazione identitaria. Detto questo, parte della magia di Venezia è anche quella dimensione nazionale e le modalità con cui i singoli paesi scelgono di (auto)rappresentarsi. La Danimarca ospita me, palestinese: lo trovo molto significativo.