Il prossimo Sinodo dei vescovi sarà probabilmente uno dei più seguiti nella breve storia di questa istituzione. L’incontro che sta per aprirsi, a cui seguirà l’assemblea del 2015, è la terza seduta straordinaria (con la partecipazione ristretta ai presidenti delle conferenze episcopali e ai componenti di nomina papale) dopo quelle del 1969 e del 1985.

I problemi che affronterà sono particolarmente “caldi”, ma la scommessa di papa Francesco che dalle due assemblee esca una rinnovata proposta sulla famiglia dovrà fare i conti non solamente con le ben conosciute resistenze nella Curia romana, ma anche con le difficoltà che riguardano il carattere e l’organizzazione di questo tipo di riunione.

Istituito da Paolo VI nel 1965, il Sinodo dei vescovi si spiega all’interno della discussione al Concilio Vaticano II. L’idea della maggioranza era completare (di fatto superandola) la dottrina del Vaticano I che aveva definito un modello fondato sul potere infallibile del Papa. La “sinodalità” viene rivendicata dai teologi in nome della tradizione apostolica, secondo la quale spettano all’intera Chiesa, e non solo al primate di Roma, la custodia del Vangelo, e al collegio dei vescovi il compito di governare la Chiesa. Il Concilio accoglierà queste suggestioni, per esempio sul ruolo dei laici, accompagnandole però ad alcune formule di compromesso. Sulla realizzazione della collegialità episcopale, con un motu proprio, Papa Montini sottrae all’assemblea la discussione, dando vita a un’organizzazione, il Sinodo, dalla funzione esclusivamente consultiva. Questo tipo di assemblea, che in teoria avrebbe dovuto rappresentare le Chiese locali, viene subordinata completamente al Papa quanto a diritto di convocazione, argomenti da trattare, modalità e tempi di funzionamento. Ai vescovi non viene lasciata neppure la facoltà di avvalersi dei loro teologi fidati, una caratteristica che aveva permesso all’assemblea conciliare di rigettare con competenza gli schemi romani.

Alcuni cambiamenti significativi si verificheranno negli anni con il maggiore coinvolgimento delle conferenze episcopali nella preparazione degli schemi di lavoro e, soprattutto, con l’istituzione di un consilium eletto dall’assemblea che si affiancherà al segretariato scelto dal papa. In ogni caso, l’inconsistenza di questa forma di collegialità “sotto controllo” emerge con nettezza dalle sue celebrazioni. In alcuni casi, si prenda quello del 1967, il Sinodo ha funzionato come camera di compensazione delle tensioni interne alla Chiesa, riaffermando gli orientamenti dominanti nel cattolicesimo contro la cappa del controllo romano. Nelle assemblee degli anni ’70, il fallimento è stato palese: organizzazione elefantiaca, tempi di discussione troppo ristretti e conclusioni generiche e poco innovative. Per trovare un po’ di sostanza bisognerà aspettare il 1985 quando Giovanni Paolo II deciderà di indire un Sinodo per sancire, di fatto, la sconfitta delle proposte più innovative uscite dal Vaticano II.

Ciò che è successo nell’ultimo periodo richiama alla mente gli eventi di allora: la diffusione di un questionario preparatorio tendente a incanalare il dibattito verso le posizioni conservatrici; l’uscita a ridosso dell’assemblea del libro-intervista del card. Ratzinger sul post-Concilio e i sui suoi effetti nefasti. Al tempo il risultato fu la constatazione di una discrepanza di vedute poi nascosta dai toni pacificatori della relazione finale. Oggi invece il rischio è quello di uno scontro a parti inverse, tra un papa riformatore e quello zoccolo duro che mal digerisce l’iniziativa di Bergoglio. Riuscirà il sensus fidelium a penetrare nell’assemblea? Data anche la composizione dell’assemblea, senza rappresentanti eletti dalle diocesi, la differenza la farà forse l’esortazione post-sinodale del Papa.

Senza lanciarsi in previsioni, resta da chiedersi se nel progetto di riforma di Francesco troverà spazio anche un ripensamento della collegialità con una riforma di questo strumento che tenga conto di una Chiesa mondiale alle prese con problematiche di vario tipo. Una Chiesa “sinodale” fatta dai vescovi, ma anche da quel “popolo di Dio” in cui cristiani divorziati e omosessuali pretendono di contare.