Il festival parigino di Cinéma du Réel si è appena chiuso, primo appuntamento della stagione primavera-estate con il cinema documentario, e manifestazione storica che per i registi più o meno indipendenti è un punto di riferimento obbligato. Tre concorsi, lungometraggi, corti e opere prime, ognuno coi suoi premi e con le sue giurie, e molti eventi «paralleli», omaggi, personali che permettono scoperte o riscoperte critiche. Quello che poi dovrebbero essere le retrospettive in un festival, e che invece troppo spesso sono diventate vetrina più o meno luccicante o semplificato catalogo.

 
Per esempio – ne abbiamo parlato su queste pagine con un bell’articolo della curatrice della sezione, Nicole Brenez – è stato possibile vedere i doc resistenti e combattivi di Haxell Wexler, più conosciuto come il direttore della fotografia della Nuova Hollywood anni settanta, e che invece ha sempre intrecciato a questo aspetto del suo lavoro un impegno da cineasta dichiaratamente politico, sfidando l’America e i suoi segreti tra guerra in Vietnam, repressione, controllo degli stati latinomaericani. Oppure – curata da Marie Piere Duhamel Müller – l’incursione nell’immaginario di Amir Dutta, oggi il più potente regista del cinema indiano.

 
Il concorso dei lungometraggi (giurati Julie Bertuccelli, Dieudo Hamadi, Hong Hyosook, Véréna Paravel, Clarence Tsui) ha premiato Killing the Time di Lydie Wisshaupt-Claudel, che rimanda (e in modo riuscito) a una tendenza del fare cinema di realtà contemporaneo, il racconto del mondo attraverso i luoghi e le tracce della loro storia che si confondono con l’ immaginario.

 

 

Qui siamo nella base dei marines di 29 Palms, California, Las Vegas dicono i cartelli sulla strada è a 220 miglia, i giovani uomini che tornano dal fronte, Afghanistan o Iraq hanno l’aria stordita, a salutarli parenti e lo skyline di palme malandate. I figlietti che gli mettono in braccio non li conoscono, la bimba osserva il padre con aria interrogativa e sembra chiedersi: «Ma chi è questo tipo qua?».

 

 

Lacrime, selfie familiari, quel paesaggio sembra confondersi coi marines, «i nostri ragazzi» ieri e adesso, reduci o in attesa di partire: barbieri, tatuatori, i bar con le bistecche che non hanno bisogno di ketchup perché non fanno schifo come al fronte. E poi birra, sigarette, falò sulla spiaggia, solo tra uomini. E le esercitazioni con la voce che avverte gli abitanti della cittadina di una più intensa attività.

 

 

Qualcuno in Afghanistan non ci torna più, altri firmeranno di nuovo, la guerra in America è un business non solo di armi, crea posti di lavoro meglio del Job Act.
Sul tatuaggio uno fa scrivere: «Il fuoco sarà la prova del nostro passaggio». America proletaria, bianca, marginale. Di figli che fanno la guerra come i padri, uno racconta che il suo si è fatto il Vietnam, e dopo non si è più tagliato i capelli e la barba. Lui farà lo stesso.

 
Cosa desideravi di più quando sei tornato chiede la ragazza al marine mentre gli sistema i capelli: «Pizza, birra e fica». Uno i figli non lo riconoscono, lo dice con tristezza, quasi con rassegnazione. Non siamo dalle parti di The Hurt Locker, Bigelow riempiva narrativamente questo quotidiano impossibile, l’incapacità della guerra-dipendenza – adrenalina, sentirsi qualcuno – di trovare una misura nella dimensione di tutti i giorni. Inadeguati nel confronto tra azione sul campo e fare la spesa al supermercato. Nel film di Wisshaupt-Claudel, la guerra non la vediamo, la sospensione della vita affiora nel gesto ordinario, quell’«ammazzare il tempo» del titolo in attesa di qualcosa, che è quasi sempre tornare laggiù. Per non essere estranei a sé stessi.

 
Gli archivi, un altro segno del cinema di realtà oggi, sono la materia su cui lavora Jean Gabriel Périot in Une jeunesse allemande (premio Scam), che ripercorre la storia della lotta armata in Germania negli anni Settanta, attraverso i suoi protagonisti, la Raf, la Rote Armee Fraktion, Ulrike Meinhof, Gudrun Ensslin, Andreas Baader. L’immagine che utilizza Périot è totalmente pubblica, tv, repertorio di processi, interviste ecc; non ci sono digressioni nel privato, interpretazioni postume, non c’è una ricerca di scopi che non sia, appunto, in quei materiali. Un punto di vista netto che apre per questo la possibilità di molte interpretazioni.

 
C’è poi una «terza via» del cinema di realtà, la scelta di «personaggi», l’esperienza singolare come sguardo sul mondo che ci dice di un sentimento collettivo: sogni,timori, pensieri fragili del presente. È qui che si muove Mattia Colombo con il suo Voglio dormire con te, un progetto cresciuto a Milano, nel laboratorio Nutrimenti terrestri, Nutrimenti celesti di Filmmaker, e dopo il premio Corso Salani per i cineasti indipendenti, continuato a Parigi nell’esperienza di Peripherie che ne è coproduttore (per l’Italia produce Start). Il film, unico italiano nel concorso opere prime ci dice anche come in Italia le cose più interessanti accadono ai margini, fuori dalle istituzioni di scuole (vedi Centro sperimentale), e dentro invece esperienze meno formattate e per questo più vive.

 

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Voglio dormire con te parla d’amore. In forma di scommessa impossibile, di ferita, di mitologia, di desiderio, di genere per rispondere sostanzialmente a una domanda: come amarsi in tempi precari, in tempi in cui tutto sembra possibile e invece il sentimento liberato da costrizioni e da ruoli appare ancora come una sfida?

 
La prima coppia, due ragazzi giovani, si è appena separata. La seconda coppia,gay, vive un rapporto non dichiaratamente consapevole «di forza»: uno lavora, l’altro sta casa e irrequieto sotto al letto tiene la valigia perché non si sa mai. Resistono, comunque, senza perdere la tenerezza. Un’altra coppia, anche questa gay, si sposa in Islanda. Sembrano felici, insieme inventano traiettorie di piaceri e punti di fuga condivisi – quello che gli altri chiamano «tradimento». Il loro desiderio ha bisogno di inclusione, le tensioni e le angosce rimangono sul fondo.
I genitori del regista stanno insieme da sempre. Inossidabili. Agli sposi o futuri tali provano a spiegare il funzionamento di questa loro «coerenza».

 

 

Ma è davvero così? È davvero per sempre? La madre fa un po’ fatica a accettare che il figlio parli dei suoi amori al maschile. Lui le racconta, con dolcezza e il passaggio, molto bello, lascia affiorare in quell’apparente tranquillità una forte tensione, qualcosa di impalpabile eppure concreto, da cui entrambi quasi sfuggono, che mette le certezze fuori controllo.

 
Il ragazzo guarda un po’ divertito e un po’ sfacciato nell’obiettivo. È il compagno di Mattia, lo rimprovera perché sta sempre a filmare. La sua allegria esprime qualcosa di doloroso, la consapevolezza di un sentimento sempre in bilico, di un equilibrio duraturo impossibile. Voglio dormire con te, anche nei suoi passaggi più incerti – il montaggio soprattutto (di Valentina Cicogna e Veronica Scotti) che a tratti predilige la chiusura, la scelta di spiegare mentre la forza del film è nei punti di fuga – è una bella scommessa di un cinema di realtà che vuole sfuggire alla generica rappresentazione del mondo, alla sicurezza delle «Grandi storie», del soggetto che di per sé giustifica tutto in quanto espressione di un problema socio-economico attuale.

 

 

Eppure ciascuno dei personaggi lascia irrompere nel quadro, e tra i suoi contorni la realtà con prepotenza; grazie a questa libertà possiamo associarvi il nostro presente, frammenti di mondo, di vita, di senso, di cinema.