Si era aperto con un momento fondante delle avanguardie novecentesche, il Sacre di Igor’ Stravinskij, danzato dalla sua compagnia sul palcoscenico del settecentesco Teatro Comunale, l’ampio progetto «nelle pieghe del corpo» dedicato a Bologna a Virgilio Sieni, a cura di Emilia Romagna Teatro; si è chiuso con una creazione che ha portato in scena all’interno di uno spazio non convenzionale ma altrettanto storico, il salone del duecentesco Palazzo del Podestà che si affaccia su piazza Maggiore, quasi un centinaio di interpreti non professionali. Non per caso. Sono questi infatti i due poli fra cui da tempo oscilla il lavoro creativo del coreografo toscano, nella convinzione che quello che conta è alla fine la traccia lasciata dal gesto del performer.

Da un lato c’è infatti il necessario ritorno verso una sorta di purezza della danza, a una tessitura coreografica basata sulla decostruzione del movimento che è propria del linguaggio di Sieni, laddove il gesto quotidiano precipita in movimenti articolari, geometrici e snodati, in una frammentarietà determinata anche dalla traccia musicale utilizzata. Dall’altro sta invece la curiosità con cui da tempo si misura con pratiche indisciplinate, che vedono protagonisti anche anziani o bambini. Dove la «trasmissione del gesto» assume anche un valore etico.
Cena Pasolini coniuga, già dal titolo, l’immagine iconica di un’«ultima cena» con il sentimento di una resistenza alla disumanizzazione che si incarna nel nome del poeta, nel segno di una religiosità laica cui dà voce l’Agnus dei intonato da un gruppo corale che accoglie all’ingresso nella sala – e diventerà significativamente nel finale un canto partigiano. Qui in effetti sono cinque le «ultime cene» evocate dai lunghi tavoli grigi, affiancati su un lato da una panca, che di traverso suddividono lo spazio delimitato a terra in altrettante zone; e all’interno di ciascuna di queste, un gruppo di 13 interpreti si muove con movimenti lenti.

Non c’è tuttavia volontà di interpretazione, gestuale o figurativa, del passo evangelico. C’è piuttosto il manifestarsi di un’identità di ciascun gruppo, resa visibile dall’evidente scansione anagrafica che determina anche i loro gesti. Al centro sono solo bambine, anche giovanissime; sono persone anziane invece ai due estremi opposti del rettangolo di gioco, lungo il cui perimetro gli spettatori possono muoversi liberamente.

Il tempo dello spettacolo è anche quello necessario a entrare in sintonia con quei loro gesti che sembrano perdersi nell’aria, con cui si cercano e si si sostengono a vicenda. Prevale un senso di sospensione dolorosa, come sulla soglia di un regno dei morti che può esprimersi soltanto attraverso il grido dei corpi. E vengono in mente allora le Passions di Bill Viola. Solo alle bambine è dato di irrompere di corsa negli spazi adiacenti, per un surplus di energia, prima che tutti quanti insieme percorrano avanti e indietro la sala come un’onda che avanza e si ritrae. Diventando per la prima volta una collettività.