Ishmael Reed: un nome mitico per chiunque si occupi di poesia e letteratura afroamericana, di jazz, di “black culture”. Oggi, alle ore 18, al Palazzo Montanari di Vicenza c’è la possibilità di ascoltare e vedere il settantottenne scrittore e performer (ultima sua opera The Complete Muhammad Alì, biografia del leggendario pugile).

In realtà Reed è alla fine di un breve tour iniziato il 17 a Roma con una lezione universitaria (più una lunga intervista per RadioTre che andrà presto in onda per Battiti, a cura di Pino Saulo ed Antonia Tessitore) e proseguito il 19 a Venezia ed il 20 a Treviso.

E’ la città lagunare il vero “epicentro” della venuta in Italia di Ishmael Reed perché qui giovedì scorso (ore 10, aula Baratto dell’Università Ca’ Foscari) è stato assegnato allo scrittore afroamericano il premio alla carriera “Alberto Dubito International”, premio riservato a “personalità del mondo artistico che si siano distinte per l’attenzione alla correlazione tra testo e linguaggi musicali”.

Reed è stato scelto dal comitato organizzatore (ne sono membri, fra gli altri, Paolo Feltrin, Marco Philopat, Lello Voce, Andrea Liberovici, Giorgio Raimondi, Marco Fazzini ed Alessandro Scarsella) che ha deciso di assegnargli il premio (intitolato alla memoria di un poeta/artista prematuramente scomparso) “in considerazione dell’attività pionieristica svolta nell’ambito della performance poetico-musicale e della grande influenza esercitata sulle giovani generazioni”.

Paradosso vuole che di nove romanzi, cinque raccolte di poesie e quattro di saggi di Ishmael Reed in Italia non ci sia quasi traccia, nonostante la sua trentennale docenza a Berkeley ed i numerosi riconoscimenti internazionali (fra cui il MacArthur Fellowship nel 1998).

Il premio veneziano vuole, non solo simbolicamente, riempire questo “vuoto editoriale”: infatti in concomitanza con il conferimento a Ca’ Foscari è uscito il volume “Il grande incantatore” (edizioni Agenzia X), curato da Giorgio Raimondi e Lello Voce.

Diviso in due parti, il libro prevede saggi che inquadrano la poliedrica e trasgressiva personalità di Reed (con un omaggio del poeta George Elliot Clarke) ed un’antologia poetica dai primi anni settanta alla contemporaneità. Le liriche (con testo originale a fronte) sono state tradotte per l’occasione da svariati poeti italiani, da Wu Ming 1 a Sara Ventroni, da Marco Fazzini a Sergio Garau.

In febbraio è anche uscita una nuova edizione di Mumbo Jumbo (1972), il romanzo di Ishmael Reed dall’estetica Neo-HooDoo che scardinò linguaggio ed idee in una prospettiva afrocentrica eversiva ed intimamente jazzistica. Minimum fax pubblica il testo (pagg.303, euro 14,50) con una prefazione di Elémire Zolla (1981) ed un profilo bio-bibliografico a cura di Liborio Conca.

La traduzione di Anne Meservey è stata riveduta e corretta da Giovanni Garbellini. Al di là della cura della nuova edizione (nei “minimum classics”) il testo è stato, però, privato del suo fondamentale e strutturale apparato iconografico, integralmente presente nell’edizione Rizzoli del 1981 ed in quella più recente di ShaKe edizioni (2003).

Ciò vuol dire depotenziarne la forza comunicativa e soffocarne l’intrinseca multimedialità, così caratteristica del poeta, performer, saggista, editore e animatore culturale nato nel Tennessee, cresciuto a Buffalo ma da tempo residente in California. Forse sarebbe stato più opportuno tradurre in italiano “Flight to Canada” (1976) o “Reckless Eyeballing” (1987).

La musica in Reed è intimamente intrecciata alla scrittura. Da dilettante ha suonato violino e trombone e a sessant’anni si è messo a studiare piano jazz. “Per me – ha detto durante l’intervista radiofonica con Pino Saulo ed Antonia Tessitore – il jazz era molto di più di una musica, era un modo di vita ed i jazzisti erano dei non conformisti. Ho incontrato Max Roach ed è grazie a lui che non sono finito in riformatorio perché abbiamo passato tanto tempo insieme ad ascoltare jazz”.

Le parole di Ishmael Reed sono al centro di almeno un paio di album seminali degli anni ’80, realizzati da Kip Hanrahan e pubblicati dalla American Clavé: Conjure: Music for the Texts of Ishmael Reed (1984) e Cab Calloway Stands In For the Moon (1988). (Disse allora il direttore/regista: “Ascolta, nel cuore di “Conjure” sta la sua sezione ritmica (yeah, include anche fiati e leggende) e swinga con così tanta forza ed intelligenza che puoi avvertire la gioia che i musicisti hanno provato lavorando insieme e scrivendo gli uni per gli altri e non riesci a sfuggire al rispetto vivente che essi stessi hanno per la magia della tradizione. Al suo tagliente cento ci sono le parole e le storie di Ishmael Reed (genuino Realismo Magico Americano?) che reintegrano storie e parole nella tradizione verbale dei griot, da cui provengono. Gran parte della magia è verticale tanto quanto orizzontale, non è vero?”.